MOVIMENTO INDIPENDENZA - Per un Sovranismo Sociale
Movimento IndipendenzaLibertà, Lavoro, Italia.
I. IL VINCOLO ESTERNO EUROPEO COME NEGAZIONE DELLA POLITICA ECONOMICA NAZIONALEII. LA STRATEGIA AMERICANA CONTRO L’ECONOMIA EUROPEA NELLA GUERRA IN UCRAINAIII. I VINCOLI ALLA SOVRANITÀ NAZIONALE SONO VINCOLI ALLA SOVRANITÀ POPOLARE FONDATA SUL LAVOROIV. LA GLOBALIZZAZIONE È CONTRARIA AGLI INTERESSI DEGLI ITALIANIV. ATTACCARE L’OCCUPAZIONE E I SALARI SIGNIFICA COLPIRE LA REDDITIVITÀ DELLE IMPRESEVI. DALLA DEINDUSTRIALIZZAZIONE ALLA CRISI DEMOGRAFICAVII. UNA POLITICA INDUSTRIALE PUBBLICA È LA BASE DELLA RINASCITA ECONOMICA NAZIONALEVIII. LE TECNOLOGIE DIGITALI E IL SISTEMA MEDIATICO MINANO LA CONSAPEVOLEZZA DEL POPOLO ITALIANOIX. LO SVILUPPO POSSIBILE: SOLUZIONI POLITICO-ECONOMICHE ALLE CRITICITÀ STRUTTURALI DELL’ECONOMIA ITALIANA
È da tempo sotto gli occhi di tutti il sostanziale fallimento della seconda Repubblica e delle sue promesse di modernizzazione, benessere, stabilità, controllo democratico.La sparizione dei partiti presenti alla Costituente, e l’indebolimento o svuotamento di quelli subentrati – ridotti a partiti personali senza vita democratica interna e senza libera scelta dei parlamentari grazie alle liste elettorali bloccate – ha consentito ai poteri forti (quasi tutti di derivazione straniera) operanti in Italia di imporre il definitivo abbandono dei tradizionali obiettivi (sanciti dalla nostra Costituzione) di occupazione e crescita che avevano caratterizzato, non senza notevoli limiti e resistenze, il trentennio post-bellico; tali obiettivi sono stati sempre più diluiti, a partire dagli anni Ottanta, in favore di una «cultura della stabilità», garantita dal vincolo esterno fondato prima sul cambio fisso col marco (dal 1979) e poi sull’euro.La stabilità dell’indirizzo politico fondamentale era, in precedenza, garantita in Italia dal controllo pubblico del sistema bancario a favore del sistema delle imprese e delle famiglie e dalla dinamicità, stabilizzatrice di investimenti e occupazione, della grande industria a controllo statale. Ora questo concetto si è evoluto in senso sempre più “liberale”, secondo le modalità del capitalismo finanziario anglosassone, sfociando nella priorità assoluta del concetto di “governabilità”, inteso come zelante e acritica attuazione degli “impegni” assunti con l’Unione Europea, imperniata sull’asse franco-tedesco.Questa scelta ha così comportato il trasferimento della determinazione dell’indirizzo politico ai Trattati europei e agli organi comunitari, in particolare alla Commissione, al Consiglio Ue e alla Banca Centrale Europea, contro i principi fondamentali di democrazia lavorista e sociale contenuti nella Costituzione e contro gli interessi e i bisogni della schiacciante maggioranza degli italiani.Tuttavia, il sacrificio di democrazia, occupazione, crescita, produttività, – ed un drammatico aggravamento della questione meridionale strettamente connesso -, neppure ha consentito di raggiungere i reclamizzati obiettivi di stabilità finanziaria pubblica (come dimostra il fenomeno degli spread) e privata (visto che il risparmio dei depositanti diviene, con l’Unione bancaria e il bail-in, garanzia delle perdite di capitale delle banche, sempre più amplificate dal fenomeno delle diffuse insolvenze, a loro volta causate dall’austerità fiscale volta al pareggio di bilancio, inserito da Monti in Costituzione).L’assoluta incapacità di autoriforma delle istituzioni dell’Unione Europea dev’essere considerata un dato di fatto insormontabile, nonostante la crisi del debito pubblico in euro (2011) e la Brexit (2020). Semmai questi cambiamenti possono avvenire in senso ancora più costrittivo, come attesta la vicenda di NGEU (NextGenerationEU), debito mutuato a forti condizionalità, totalmente vincolato all’importazione di tecnologie estere e con pesanti oneri di restituzione.Anche l’attuale “gestione” della crisi energetica, segnata da uno stallo disastroso di iniziative comuni, riafferma la natura istituzionalmente non solidaristica dell’Ue e della mission della BCE, perfettamente conforme alle previsioni dei Trattati, sia in tema di espresso divieto di solidarietà fiscale, sia in tema di autonomia delle scelte energetiche di ciascun paese (si vedano gli artt. 125 e 194.2, seconda parte, del TFUE – Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea).
L’inaudito astensionismo che oggi si registra non è che la prevedibile conseguenza di questa catastrofe politica e sociale, frutto di un esplicito ripudio dell’indipendenza nazionale (perfino nelle dichiarazioni dei vertici delle istituzioni nazionali) e di una sfiducia nella capacità del popolo italiano di autogovernarsi (tradizionalmente propria nelle nostre elites industriali e finanziarie, da sempre liberali e cosmopolite), espressi con una franchezza, e perseguiti con una coerenza, che hanno pochi precedenti nella pur travagliata storia nazionale. La novità che ci si presenta oggi – soprattutto dopo lo scoppio della guerra in Ucraina – è lo sfaldarsi dell’impalcatura della globalizzazione che ha fatto da sfondo a questa distruttiva e illusoria «fuga dalla storia» italiana ed europea.In questa crisi risalta la predominante influenza “riacquistata” dagli Stati Uniti. In base a precedenti storici ben documentati, la scelta del vincolo monetario (prima) e della moneta unica (poi), corrispondono a una “pressione” politica molto accentuata impressa dagli Stati Uniti sulle nazioni europee. Ora però l’atteggiamento geo-politico del Presidente Biden, mira oggettivamente, ed in modo traumatico e repentino, a rompere il legame tra l’approvvigionamento energetico garantito dalla Russia ed il mercantilismo dell’area euro, guidato dall’interesse del dominante manifatturiero tedesco. Ciò conferma con chiarezza quanto, ancora oggi, la classe politica e dirigente italiana ha difficoltà a comprendere: il sistema politico-industriale tedesco – laboratorio del modello economico “ordoliberista” – è stato prescelto dagli stessi Usa come strumento economico per “disciplinare” le democrazie europee, eliminando progressivamente ogni residuo di welfare pubblico e di intervento bilanciatore dello Stato rispetto agli appetiti del capitale multinazionale.In tal senso, l’effetto dell’imposizione agli Stati dell’Unione europea di adottare le “sanzioni” contro la Russia, è, da un lato, il rendere complessivamente l’area-euro importatrice netta (via commodities e tecnologie energetiche e digitali, grazie al già controverso paradigma delle green e digital revolution), cioè debitrice e non più creditrice verso il resto del mondo, dall’altro, quello di rendere strutturale questa dipendenza dall’estero, portando l’intero continente in una situazione costrittiva di deindustrializzazione, forzata dall’insostenibilità dei costi da parte delle imprese (con effetti occupazionali che ipotecano pesantemente il futuro dei popoli europei e, più di tutti, di quello italiano).La storia non è finita, si sta rimettendo in marcia presentando minacce gravissime ma anche inedite possibilità.Agire per affrontarle e coglierle nell’interesse nazionale, cioè di tutti i cittadini italiani presenti e futuri, impone la necessità di fare i conti in maniera analitica con i vincoli che al momento lo rendono impossibile.
L’astensionismo deriva quindi, in misura direttamente proporzionale, dal distacco della politica dalle istanze popolari, dovuto alla perdita di sovranità. Senza sovranità monetaria, non ci può essere sovranità fiscale, infatti regole apposite nell’euro-area vincolano lo Stato a finanziarsi esclusivamente sul mercato finanziario privato, come un debitore di diritto comune, e quindi a mantenere una bassa inflazione “a qualsiasi costo”.Questo obiettivo si può raggiungere sostanzialmente attraverso uno Stato che viene privato, attraverso l’obiettivo del pareggio di bilancio, della possibilità di utilizzare la spesa pubblica corrente e per investimenti per il sostegno all’occupazione e al reddito delle famiglie: reddito indiretto, sanità e istruzione pubblica, e reddito differito, cioè la previdenza pubblica. Senza sovranità fiscale, non ci può essere una politica economica nell’effettivo interesse della nazione, cioè volta alla piena occupazione, a conseguenti redditi dignitosi, e ad una consistente propensione a trasformare il risparmio in investimenti produttivi (esattamente l’opposto di quanto, invece, stabilisce l’art.47 Cost.).E senza una politica economica volta all’interesse nazionale, non è possibile avere una politica industriale nell’interesse della Nazione e quindi la sopravvivenza delle imprese che non siano orientate ad esportare: cioè dovrebbero sopravvivere solo quelle inserite, in posizione subordinata, dentro le strategie integrate di grandi gruppi industriali esteri.L’interesse nazionale è quindi l’interesse del lavoro italiano: lavoro che si articola nella sua forma imprenditoriale, salariata, autonoma, pubblica o privata (art.1 Cost.). Il lavoro sviluppato in tutte le sue forme garantisce la sovranità popolare: la democrazia non può essere limitata da vincoli alla sovranità nazionale.Nel momento in cui i vincoli alla sovranità nazionale sono vincoli alla sovranità popolare fondata sul lavoro, questi sono vincoli allo sviluppo economico della nazione e al benessere materiale e spirituale degli italiani. Ovvero vanno rimossi nell’interesse degli Italiani.Introdurre questo concetto, in sé piuttosto elementare, nell’opinione pubblica, rendendolo un patrimonio condiviso di tutti gli italiani, è impresa ardua, ma – specialmente alla luce del disastro energetico-produttivo in corso – necessaria per la nostra stessa sopravvivenza come comunità nazionale.
La globalizzazione, ovvero la libera circolazione dei capitali in un mercato globale, ha prima portato all’impoverimento dei lavoratori dipendenti, ponendo i salari italiani in competizione con i salari di paesi economicamente arretrati; quindi ha contribuito a contrarre la domanda aggregata nazionale, impoverendo il mercato interno e sottoponendo a pressioni crescenti i profitti delle imprese che operano nel mercato nazionale e che vedono i lavoratori italiani come clienti.Il risultato è stata la progressiva desertificazione industriale, unita alla cessione di intere filiere produttive a imprese di concorrenti non nazionali, drenando ricchezza all’estero e sacrificando autonomia economica e – quindi – politica. Ovvero la globalizzazione ha operato contro gli interessi generali degli Italiani. L’accelerazione “geopolitica” impressa con le sanzioni alla Russia, e la rottura dell’equilibrio energetico nella produzione industriale europeo, indicano che pure la “crisi” della globalizzazione stessa (si parla di “decoupling” tra economie occidentali e quelle russa, cinese e, in senso sempre più evidente, indiana, orientale in genere, e persino dei paesi arabi produttori di idrocarburi), in quanto guidata dall’interesse dominante degli Stati Uniti, si rivela un’evoluzione disastrosa, proprio in assenza di quegli elementi di sovranità che sembrano ormai irreversibilmente dispersi dentro il calderone della passività, e incapacità decisionale, dell’Unione europea.L’Unione Europea ha costituito, per la sua peculiare ingegneria istituzionale (liberalizzazione dei capitali estremizzata e configurazione di una Banca centrale che, per norme intangibili, non garantisce il debito pubblico emesso in euro, né i sistemi bancari nazionali), la punta di diamante della globalizzazione e, con i suoi stringenti vincoli fiscali, burocratici e, anzitutto, monetari, ha strozzato l’economia italiana a favore di paesi concorrenti come la Francia o la Germania.La UE ha determinato un gigantesco effetto di perdita di controllo, economico e democratico: cioè, in generale, quello di far aggredire il nostro patrimonio produttivo e immobiliare, nonché il nostro stesso risparmio, da investitori stranieri di tutto il mondo. E ciò, dopo aver comunque aperto le porte a ondate di acquisizioni da parte dei paesi “dominanti” dell’euro-area, avvantaggiati sistematicamente da un’applicazione discrezionale, e vantaggiosa, di regole (in tema fiscale, di aiuti di Stato, di ricapitalizzazioni statali del sistema bancario, di squilibri macroeconomici sul debito, così come sull’eccesso di attivo commerciale) che, invece, sono state applicate (e spesso invocate “dall’interno”) severamente nei confronti dell’Italia.Per interessi convergenti, Germania e Francia premono per accelerare la crisi economica italiana, e, in concorrenza con i fondi predatori anglosassoni, cercano di accaparrarsi la domanda pubblica (spesa in appalti), nonché i risparmi e i patrimoni privati e pubblico, in una svendita sempre più accelerata, che si è trasformata in un vero e proprio saccheggio.
La libera circolazione della forza lavoro e le politiche di immigrazione europee, imposte complessivamente dai trattati, sottraggono qualsiasi possibilità, – in presenza di una moneta unica senza banca centrale “garante”, trattati di libero scambio e filiere produttive passate in mano estera -, di poter far crescere in qualsiasi modo i salari e garantire una diffusa redditività delle imprese.La politica economica e fiscale sono orientate in modo manifestamente contrario ai principi fondamentali della Costituzione, non perseguendo la piena occupazione ma massimizzando i profitti della grande impresa finanziaria o finanziarizzata, sempre più estesamente a controllo estero.Inoltre, ciò ha creato una forte concentrazione di risparmio nelle mani di chi può facilmente esportarlo, facendo crollare gli investimenti: l’enorme saldo negativo italiano nel sistema di pagamenti in euro, denominato Target-2, indica una fuga di capitali, a partire dall’epoca “Monti”, che nessun paese industrializzato può reggere senza contraccolpi esiziali su investimenti, occupazione e produttività.In ogni caso, le regole del commercio internazionale imposte dai trattati UE impediscono la piena occupazione e tutte quelle importanti «tutele» (definite “rigidità”) che preservano il lavoro come baricentro della famiglia e, quindi (cosa che sfugge sempre più al pubblico dibattito), la redditività delle imprese che hanno nel mercato interno i propri clienti (che, necessariamente, sono la stragrande maggioranza).Da rilevare, poi, che la disintegrazione del legame tra occupazione (domanda) e redditività delle imprese (da cui la propensione ad investire), conduce ad una drammatica crisi demografica che, a sua volta, accelera la caduta della “base imponibile” fiscale complessiva – e quindi della tenuta dei conti pubblici -, inducendo a quella rincorsa all’aumento della pressione fiscale e al taglio dei servizi essenziali che è obbligatoria secondo le regole fiscali che governano l’eurozona.Inutile ribadire che il traumatico mutamento che sta imponendo la “crisi energetica” porta questo fenomeno a livelli insostenibili, specialmente per l’assoluta impossibilità di trovare soluzioni realistiche ed efficaci dentro un quadro di regole Ue che non si accenna minimamente a voler modificare.
Abbiamo sinteticamente visto che il nostro principale problema sociale e, se vogliamo, di impoverimento culturale, risiede in un vincolo monetario e politico-economico, rigido e prolungato. Potremmo definirlo “effetto di deindustrializzazione” dovuta al coniugarsi di due fattori istituzionali: l’adesione alla moneta unica e la globalizzazione (che è tutto fuorché “spontanea”, come dimostra proprio l’attuale “svolta contraria” imposta dal mutamento di linea degli Stati Uniti).I cittadini percepiscono tangibilmente questo paradigma nel fatto che i livelli salariali sono soggetti ad un irreversibile declino, via via che le politiche (appunto “sovranazionali”) degli ultimi decenni hanno determinato sia la progressiva perdita del controllo (o, peggio, la sparizione) delle filiere industriali a più alto valore aggiunto, che, come abbiamo visto, una connessa crisi demografica, ormai strutturale; cioè, tipica delle insistite politiche deflattive, che si proiettano essenzialmente sul mercato del lavoro, rendendo pressoché irraggiungibile il livello di reddito e di sicurezza che inducono la formazione delle famiglie per i nostri, già pochi, giovani.Questa situazione è stata appunto determinata dalle politiche di austerità fiscale, conl’ossessione del pareggio di bilancio, imposte dal regime normativo proprio della moneta unica e dalle conseguenti misure fiscali necessarie all’Unione Europea per tener in vita l’euro. La sua logica è, in base alle previsioni fondamentali dei trattati, volta alla compressione salariale al fine di competere sui mercati internazionali schiacciando la domanda interna a favore delle esportazioni (il sopradetto mercantilismo a trazione tedesca).La necessità di tener basso il costo del lavoro e di ammortizzare il crollo demografico ha dato poi il pretesto per far apparire come ineluttabili i grandi flussi migratori, in entrata e in uscita; i migliori laureati e diplomati formatisi in Italia emigrano e l’impoverimento industriale tende a far sostare in Italia gli immigrati meno dotati di professionalità e formazione, proprio a causa delle tipologie di lavoro che domanda il sistema italiano.Queste due tendenze, rendono la deindustrializzazione ancora più strutturale e comportano gravi disagi sociali e alienazione. Insieme all’importazione di merci “culturali”, i flussi migratori costituiscono modifiche sociologiche che minano alle fondamenta la millenaria cultura italiana.Sarebbe, a questo punto, inutile ribadire la triste constatazione che tali processi siano addirittura accelerati, e non attenuati, dall’aggiungersi della crisi energetica che, con riguardo all’euro-area, finisce, come s’è visto, per sopprimere pure la (debole) tendenza alla crescita fondata essenzialmente sulle esportazioni (ciò che, appunto, caratterizza il mercantilismo a trazione tedesca).
Quel minimo di «autarchia» – e quindi di economia «chiusa» – che auspicava il più grande economista del ‘900, John Maynard Keynes, oggi è istituzionalmente impedita dai vincoli dei trattati “sovranazionali” (dall’UE all’OMS, passando per il WTO e il FMI).Per questo aumentare i salari è economicamente quasi impraticabile come misura in sé, in quanto la già avvenuta distruzione/riduzione delle filiere produttive a più alto valore aggiunto e a più elevato contenuto tecnologico, comporta che l’aumento della domanda aggregata (come, irrazionalmente, si sta tendendo a fare col Pnrr), si trasformi sempre più in domanda di beni prodotti all’estero e, quindi, in uno squilibrio della bilancia commerciale a favore dei creditori esteri.La transizione ecologica che ci viene imposta si inserisce, a coglierne il frutto avvelenato, in questa trasformazione strutturale, economica e demografica che l’Italia ha subìto, perché accelera fortemente anch’essa l’uso (strutturale) di tecnologia d’importazione.Noi abbiamo invece bisogno di poter attuare sovranamente politiche industriali coerenti con una chiara visione degli interessi di lungo periodo dell’intero Paese: ossia solo una politica industriale pubblica, ben calibrata sulla realistica situazione economica e sociale della Nazione, può rivitalizzare e far ri-espandere (esattamente com’è accaduto durante la ricostruzione nel dopoguerra), l’intero settore privato sopravvissuto.Per muoversi in questa direzione, va anzitutto effettuata una rigorosa ricognizione dell’attuale struttura produttiva, delle capacità tecniche, scientifiche e culturali disponibili.Queste politiche pubbliche dal lato dell’offerta sono le premesse logico-politiche per poter realisticamente porre in essere politiche dal lato della domanda, cioè della tutela del lavoro (e in ultima analisi, di favor demografico), che oggi non possiamo permetterci di fare. Il passaggio principale, divenuto indispensabile, è quindi perseguire una reindustrializzazione per mano pubblica.Ma ciò, a sua volta, presuppone un totale mutamento istituzionale, (compreso il rilancio dell’istruzione pubblica italiana, ad ogni livello): ovvero è necessario (attraverso atti giuridici del massimo livello di decisione politica) lo smantellamento dei vincoli monetari e fiscali euro-unionisti.Un aspetto aggiuntivo emerge ora (ma avrebbe dovuto essere chiaro anche in precedenza, in un paese trasformatore e manifatturiero come l’Italia), con enorme evidenza, a causa dell’atteggiamento dell’Ue sulle “sanzioni” adottate a seguito del conflitto russo-ucraino: senza un’abbondante disponibilità di energia a basso costo questi sforzi, e prima ancora la nostra stessa sopravvivenza, sarebbero per lo più impossibili.È dunque evidente come la stessa transizione energetica non sia nel nostro immediato interesse; essa è incompatibile con l’orientamento utile, per l’interesse nazionale, degli investimenti, con la tutela del lavoro – e con il relativo rilancio dei livelli retributivi e, quindi, di redditività delle piccole e medie imprese -, che permetterebbe la ripartenza dell’economia.
È quasi impossibile difendere gli interessi nazionali, anche nel caso di una forte decisione politica unilaterale di “rottura”, a meno che, prima, non si passi per una diffusa consapevolezza del popolo italiano, e dei partiti che dovrebbero esserne i rappresentanti, delle condizioni per realizzare una realistica fase di transizione verso il recupero della sovranità e della legalità costituzionali.Ed infatti, l’integrazione delle filiere globali – anche in caso di catastrofiche crisi economiche come quelle in cui è sprofondato il mercato globalizzato – rende di difficile la comprensione una politica economica realmente sovrana volta a perseguire gli interessi degli Italiani. Infatti le attuali forze politiche sono divenute timorose (dei “mercati” e delle reazioni della BCE) e disabituate, ormai da decenni, a fare scelte politico-economiche, industriali e fiscali al di fuori delle soffocanti regole euro-unioniste. Tra queste regole “intoccabili” emergono i vincoli all’azione della BCE, le regole di austerità fiscale che governano l’eurozona e il regime degli aiuti di Stato.Le tecnologie digitali, a quasi totale controllo estero, gettano una luce sinistra sulle possibilità di riconquistare quel minimo di indipendenza tecnico-produttiva che esigerebbe, in un immediato futuro, una ritrovata autonomia economica.Inoltre la capillarità dell’uso del digitale toglie qualsiasi necessaria riservatezza alla vita economica, sociale e politica del Paese, esponendola all’ossessiva sorveglianza angloamericana e più in generale di chi controlla lo sviluppo delle tecnologie digitali: il controllo politico-culturale “estero” diviene così sempre più profondo ed irreversibile.Di fatto la prostrazione economica prodotta dai Trattati UE, e in particolare dall’euro, è stata presentata dal sistema mediatico come frutto di una colpa umiliante di cui gli italiani si sarebbero macchiati. Una tale “narrazione” non corrisponde affatto alla realtà delle cause del declino nazionale: il controllo mediatico, oltre a quello della digitalizzazione, è chiaramente un tema di primaria importanza.Non si può perseguire l’interesse nazionale senza il controllo democratico dell’informazione.Il relativo “vantaggio” che possiamo vantare, in questa difficile opera di salvezza, è che il mutamento istituzionale qui indicato come necessario, coincide con il modello sociale e politico-economico della nostra Costituzione del ‘48 ed è quindi più facile, e legittimo, trovare una soluzione sulla base della Legge fondamentale della nostra comunità nazionale.Si può utilmente rivendicare, finché essa formalmente esista, che la parte essenziale e immodificabile della nostra Costituzione diverge radicalmente dal sistema dei trattati, con le sue regole sul ruolo della banca centrale, sugli aiuti di Stato, con i suoi severi limiti fiscali, con le sue imposizioni di «privatizzazioni» e «liberalizzazioni», con la sua scarsa attenzione al risparmio e alla tutela del sistema bancario: “vincoli esterni” che, nel loro insieme, sono la causa del declino italiano.Questo risveglio culturale, istituzionale e, nelle condizioni attuali, di consapevolezza “geopolitica”, è l’unica difficile via rimasta per avere un futuro dignitoso.
1. L’analisi dello scenario evolutivo dell’eurozona – soprattutto dopo l’inizio della guerra in Ucraina – pone il quesito relativo al “come” ritornare a un livello di crescita stabile ed adeguato.La risposta a tale interrogativo esige l’adozione di alcune misure di salvaguardia dal “vincolo esterno” imposto sia dai mercati finanziari, in termini di spread, sia dalla ampia “discrezionalità” della BCE nel concedere liquidità al nostro sistema bancario e, indirettamente, al nostro sistema fiscale.È immaginabile un ventaglio di rimedi adottabili senza dover mettere in discussione le norme dei trattati, in particolare:
Questo insieme di provvedimenti sono infatti adottabili dentro le maglie delle previsioni dei trattati e del diritto europeo. Ma purché vi sia una forte volontà politica in tal senso all’interno di un Governo che abbia la chiarezza di idee e la determinazione concorde di difendere l’interesse nazionale.Va aggiunto che di fronte all’evoluzione dell’eurozona impressa con la riforma dell’MES, sono necessarie altre adeguate “misure di difesa”, oltre il rifiuto categorico di ratificare questo trattato.
2. Alla fase di “assestamento difensivo” dell’interesse nazionale, va fatta immediatamenteseguire una serie politiche economico-industriali, per così dire, attiva, costruttiva.Ciò deve comunque basarsi sulla consapevolezza che ogni possibile politica economica e sociale si inserisce in un quadro istituzionale, quello determinato dalla nostra permanenza nell’area euro, composto di regole rigidamente applicate (sicuramente nei confronti dell’Italia).Quindi, determinare tali politiche presuppone il prendere atto di alcune caratteristiche del nostro sistema istituzionale ed economico, generate dalla prolungata applicazione delle regole Ue, che hanno appunto modificato, indebolendolo, il nostro sistema produttivo e industrial-manifatturiero; caratteristiche che appaiono trascurate dai governi, tutti presi dalla contingenza dei “conti in ordine”.
3. Ed infatti, il sistema Ue-eurozona presenta i seguenti elementi di forte vincolo:a) divieto legalmente sancito (e non meramente corrispondente ad una prassi osservata autonomamente dalla banca centrale) di intervento della BCE nel finanziamento diretto dell’azione economico-fiscale dello Stato, nonché di ogni forma di solidarietà fiscale (si vedano gli artt.123-124-125 del TFUE);b) aggiustamenti degli squilibri commerciali e finanziari entro l’eurozona, perseguibili solo entro la cornice del fiscal compact, (principio del pareggio di bilancio, imprudentemente recepito in Costituzione): cioè mediante consolidamento fiscale incessante, che dà luogo ad una indiscriminata compressione della domanda interna che riduce sì i consumi, avendo come obiettivo quelli di beni e servizi importati, ma finisce per tagliarli generalmente tutti e per ridurre la produzione interna, la corrispondente occupazione e la propensione all’investimento nazionale. Al più propiziando spinte deflazionistiche che affidano alla competitività forzata (sul costo decrescente del lavoro), e quindi alle sole esportazioni, le magre possibilità di crescita del prodotto nazionale;c) cesura del legame vitale tra banche e economia “sul territorio” dovuto all’Unione bancaria, laddove la vitalità del sistema produttivo italiano è invece legata alle piccole e medie imprese originate da una intraprendenza creativa diffusa e decentrata;d) crescente peso dei servizi nell’economia; fenomeno che incentiva sia lo spiazzamento degli investimenti dal fondamentale settore manifatturiero, sia la sotto-offerta, il sotto- investimento e la sotto-occupazione, determinati, per loro notoria fisiologia operativa, da monopoli, e oligopoli concentrati, gestiti dai proprietari privati, o privatizzati, che controllano il settore dei servizi (fenomeno ulteriormente accentuato dall’apertura dell’economie, – sia all’interno del mercato unico Ue, sia per via della c.d. “globalizzazione”-, e che induce un crescente controllo estero sul settore dei servizi, inclusi quelli di interesse generale “a rete”);e) difficoltà estrema a correggere tale dannosa “struttura di mercato”, e la conseguente stagnazione deflazionista, in conseguenza dei limiti all’intervento fiscale (pareggio di bilancio) e del regime del divieto di aiuti di Stato, quale interpretato (specialmente nei confronti dell’Italia) dalle autorità Ue.
4. È necessario quindi un complesso di misure di intervento pubblico mirato a ridurre, attraverso diretti investimenti industriali in settori strategici, i limiti al livello dei moltiplicatori fiscali che sono dovuti al fatto che, ormai, crescendo spesa pubblica e privata, si verifica un insostenibile aumento delle importazioni.A ciò, può porsi rimedio soltanto consolidando un rilancio della capacità industriale nazionale fondabile prevalentemente sulla domanda interna. In altri termini, va perseguita, grazie all’intervento pubblico “mirato”, una ripresa che non comprometta l’equilibrio delle partite correnti, la solidità della posizione patrimoniale netta sull’estero (problema acuito dall’invocazione degli “investitori esteri”) e ricrei un’adeguata propensione ad investire del settore privato.La ripresa industriale e occupazionale legate alla domanda interna, risolvono anche gli pseudo-problemi posti sui principali aggregati della spesa pubblica: servizio sanitario universale (reddito delle famiglie indiretto) e sistema pensionistico pubblico (reddito delle famiglie differito).Ed infatti, il maggior gettito, sia fiscale che contributivo, che sarebbe determinato da una crescita dell’occupazione connessa al rafforzamento della produzione interna effettivamente consumata sul territorio nazionale, sgonfierebbe il problema dei conti pubblici; mentre, allo stesso tempo, se il rafforzamento industriale e occupazionale si consolidasse, darebbe soluzione (progressiva) al problema della traiettoria demografica negativa (riducendo anche il simmetrico problema di invecchiamento della popolazione).Peraltro, reddito indiretto e reddito differito sono, per la stessa Costituzione, oltre che tutela dei bisogni essenziali della società, gli strumenti privilegiati di un risparmio diffuso, fondato sul lavoro (adeguatamente retribuito), che costituisce lo strumento più sano per alimentare autonomamente gli investimenti produttivi (come emerge dallo stesso art.47 Cost.) e finanziare la stessa azione dello Stato.
5. Le soluzioni qui auspicate per linee generali, possono condurre, dapprima, allo sfruttamento mirato di regole del diritto europeo (si pensi al regime derogatorio del divieto di aiuti di Stato relativo ai SIEG, cioè ai Servizi di interesse economico generale, e al nuovo regime di praticabilità delle iniziative industriali pubbliche “In House”); e successivamente, al raggiungimento di una ripresa autonoma della crescita e della capacità industriale nazionali, al punto da rendere quasi naturale, per mutamento delle posizioni di forza negoziali, una riforma concordata del quadro istituzionale UE.Il rafforzamento della capacità industriale nazionale è perseguibile promuovendo “l’effetto sostituzione”, cioè impiegando, almeno nella fase iniziale del ciclo, gli investimenti pubblici per iniziare a produrre ciò che viene consumato in Italia, specialmente nelle filiere a più alto valore aggiunto, opportunamente individuabili in base al know-how tecnologico e alle competenze della forza lavoro ancora disponibili in Italia. Ciò mantiene e rilancia anche la qualità dell’occupazione e, più ampiamente, della convivenza sociale.Lo stesso intervento pubblico può contemporaneamente essere indirizzato a “rimuovere le strozzature” (di disponibilità di capitale, di accesso ai risultati della ricerca teorica e applicata, di regime tributario) al fine di potenziare i settori italiani già competitivi e ben orientati all’esportazione.In sostanza, riprendendo la citazione keynesiana fatta da Federico Caffè, l’azione fiscale espansiva, per raggiungere una sostenibilità, nei conti con l’estero e, naturalmente, occupazionale, deve porsi l’obiettivo: “cosa produrre e cosa scambiare con l’estero in modo da assicurare l’equilibrio della bilancia dei pagamenti nel medio-lungo termine”.
6. In questo quadro è fondamentale rinegoziare il PNRR per indirizzarlo verso politiche industriali ed economiche realmente utili per la nostra Nazione: meno transizione energetica e digitale, più infrastrutture e finanziamenti per la politica industriale pubblica. In particolare per la transizione energetica bisogna rendere centrale la manutenzione e l’efficientamento energetico del nostro patrimonio immobiliare pubblico e privato (vedi Superbonus 110%). In più bisogna allungare i tempi previsti per mettere a bando i progetti per evitare caotiche accelerazioni che di per sé generano nuova inflazione e valutare una riduzione dell’utilizzo di risorse ottenute attraverso prestiti che dovranno essere restituiti, aumentando di fatto il debito pubblico e i costi del suo servizio (i fondi del PNRR, infatti, devono essere pagati non solo negli interessi ma, a differenza dei titoli di Stato, anche per la sorte capitale). Nell’immediato le risorse del PNRR devono essere utilizzate per ridurre l’impatto dei rincari energetici sulle famiglie e sulle imprese.
7. Infine il rilancio del nostro sistema economico è impensabile senza una profonda revisione ed un rapido superamento delle sanzioni contro la Russia, che si sono rivelate delle “auto-sanzioni” che oggettivamente danneggiano più i paesi europei che il regime di Vladimir Putin. È evidente che tutto questo non è pensabile senza ottenere almeno un cessate il fuoco e l’apertura di un tavolo di trattative tra le parti in conflitto. Ecco perché l’impegno per fermare la guerra è fondamentale non solo per ragioni umanitarie e per evitare il rischio di una pericolosissima escalation del conflitto, ma anche per salvare la nostra economia che senza un’abbondante disponibilità di energia a basso costo non può essere salvata.Una svolta del Governo italiano in questo senso aprirebbe un inevitabile contenzioso non solo con gli Stati Uniti ma anche con le istituzioni dell’Unione Europea, ma proprio questo potrebbe essere l’innesco per un non più rinviabile negoziato con i nostri partner europei e occidentali. Se si pretende l’allineamento dell’Italia come paese cobelligerante con l’Ucraina come è possibile negare una profonda revisione dei Trattati europei (e nell’immediato delle decisioni economiche della BCE e della Commissione europea) e dei costi economici delle forniture energetiche tra l’Italia e gli Stati Uniti, nella chiave di una “economia di guerra” che possa salvare il nostro sistema produttivo? È evidente che la forza negoziale dell’Italia sarebbe rafforzata dall’adozione delle misure di salvaguardia dal “vincolo esterno” accennate all’inizio di questo capitolo.
8. Tra i punti in sospeso ereditati dal Governo Draghi c’è anche quello del Superbonus 110% per l’adeguamento energetico degli edifici. Si tratta di un tema di portata sistemica: i crediti non smobilizzati sono quasi a 4 miliardi e le imprese edili a rischio default oltre 20.000. Non solo: nella “Direttiva sul rendimento energetico nell’edilizia” che sarà emanata dalla Commissione europea è prevista l’inalienabilità degli immobili che non rispondono a requisiti energetici progressivamente sempre più alti. Quindi i comuni cittadini che non avessero i soldi per adeguare i propri immobili alla costosa normativa energetica, si troverebbero con le loro case ridotte a valore commerciale zero. L’unica soluzione possibile è costituire un veicolo pubblico/privato che acquisti i crediti dalle banche che hanno fatto da collettori e li cartolarizzi emettendo note garantite dal MEF o da SACE. Il mercato degli investitori internazionali con questi tassi potrebbe facilmente impiegare risorse, avendo un rischio default prossimo allo zero. I crediti sarebbero a loro volta gestiti tramite piattaforma di nuovo a disposizione delle banche per compensarli sugli F24 di imprese e contribuenti dando la possibilità di frazionarli anche infra-anno. Questa manovra genererebbe quasi 100 miliardi di euro di liquidità rotativa sul settore: a questo punto anche il 90% sarebbe un credito gradito e la manovra sostenibile. Un vero e proprio esempio di moneta fiscale, fino ad ora sempre sconfessato dal MEF su input delle autorità europee.
9. Il Ministro Giorgetti ha dichiarato l’Italia è pronta a ratificare la riforma dell’ESM (o MES, il fondo salva-stati) se la Corte costituzionale tedesca darà il via libera all’adesione della Germania. C’è da sperare che questa sia solo un’uscita estemporanea per prendere tempo, perché sarebbe veramente un disastro se il Governo Meloni si intestasse questa ratifica che dal 2019 i governi Conte e Draghi hanno comunque evitato. Ratificare la riforma dell’ESM per l’Italia significa condannarsi ad andare in default. Il Meccanismo Europeo di Stabilità prevede una serie di condizionalità che a un paese indebitato come l’Italia consentono solo di accedere a una “linea di credito a condizioni rafforzate” che comporterebbe una preliminare ristrutturazione del debito e quindi il fallimento delle finanze pubbliche. Non solo: l’ESM, per meglio esercitare i propri compiti, cioè scrutinare gli Stati per le loro eventuali future richieste di assistenza, procederà “d’ufficio” all’accertamento della sostenibilità del debito pubblico di concerto con la Commissione e la BCE. Quando da queste verifiche d’ufficio risulterà che l’Italia non è in condizione di accedere alle normali linee di credito dell’ESM, sui mercati si scatenerà il panico rispetto ai nostri titoli, poiché sono le stesse autorità che dovrebbero “sostenerci” che dicono che siamo destinati ad una preventiva ristrutturazione del debito.Questa ratifica è quindi qualcosa da evitare ad ogni costo, perché l’esito sarebbe nel caso migliore quello di sprecare le ingenti risorse con cui l’Italia dovrebbe finanziare questo nuovo ESM senza però poter accedere al suo utilizzo, oppure nel caso peggiore quello di condannare l’Italia ad una ristrutturazione economica “lacrime e sangue” peggiore di quella inflitta a suo tempo da Mario Monti.