DOCUMENTO ASSEMBLEARE

Indipendenza contro Declino

CHE COSA È L’INDIPENDENZA ITALIANA

PERCHÉ NASCE IL MOVIMENTO DELL’INDIPENDENZA ITALIANA

I NEMICI DELL’INDIPENDENZA ITALIANA

LA CARTA DEI PRINCIPI DELL’INDIPENDENZA ITALIANA

PRIMO PILASTRO – LA CULTURA IDENTITARIA E L’APPARTENENZA COMUNITARIA DEL POPOLO ITALIANO

SECONDO PILASTRO – LA DOTTRINA SOCIALE CATTOLICA COME SOSTEGNO ALLA PERSONA UMANA

TERZO PILASTRO – L’UMANESIMO DEL LAVORO

QUARTO PILASTRO – L’AUTODETERMINAZIONE E I DIRITTI DEI POPOLI

QUINTO PILASTRO – I PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

IL MANIFESTO PROGRAMMATICO DELL’INDIPENDENZA ITALIANA

PRIMO – SUPERARE I VINCOLI EUROPEI PER TORNARE A CREARE E DISTRIBURE RICCHEZZA, RICOSTRUENDO I DIRITTI SOCIALI E DEL LAVORO DEGLI ITALIANI

SECONDO – L’ITALIA PROTAGONISTA NEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE

TERZO – L’ITALIA AL CENTRO DEL MEDITERRANEO PER FRENARE I FLUSSI MIGRATORI E COOPERARE CON L’AFRICA

QUARTO – LA RIGENERAZIONE DELLO STATO, LA PARTECIPAZIONE E LE RIFORME ISTITUZIONALI

QUINTO – CONTRO IL TRANSUMANESIMO DIFENDERE LE VERE LIBERTÀ DELLA PERSONA UMANA

SESTO – L’ITALIA PATRIMONIO DELL’UMANITÀ. QUALITÀ CONTRO OMOLOGAZIONE: IL MODELLO ITALIANO

INDIPENDENZA CONTRO DECLINO

Da troppi anni assistiamo al declino dell’Italia. Declino demografico, declino culturale ed educativo, declino economico e industriale, declino della qualità della vita.

Crescono, invece, povertà e devastanti disuguaglianze sociali.

Nel 1991 si parlava di un’Italia quarta potenza economica mondiale, poi sono arrivati i vincoli economici dell’Euro e oggi siamo diventati ottavi. Ma faremo molta fatica nei prossimi anni a mantenere questa posizione, perché, passato il “rimbalzo del PIL” seguito all’emergenza Covid, la crescita prevista per i prossimi anni è inferiore all’1%.

Sono sempre di più le persone in povertà assoluta nel nostro Paese: si contano infatti oltre 5,6 milioni di indigenti secondo i dati ufficiali diffusi dall’Istat sul 2022 (9,7% sul totale della popolazione italiana, in crescita dal 9,1% dell’anno precedente). L’Italia – secondo Eurostat – è l’unico fra i grandi Paesi europei (Francia, Germania e Spagna) in cui la quota di famiglie che riporta almeno qualche difficoltà a far quadrare i conti nel 2022 è sopra il 63%.

E ci sono sempre più disuguaglianze, mentre si riduce il numero delle persone che hanno un reddito medio-alto. Dei circa 41,5 milioni di contribuenti che, nel 2022, hanno presentato la dichiarazione dei redditi, solo il 4% ha dichiarato di aver guadagnato più di 70 mila euro.

Negli ultimi 30 anni, dal 1991 al 2020, il reddito pro-capite in termini reali è sceso per 9 delle 10 dieci fasce di reddito ed è sceso di più per le fasce più povere.

Il dato più grave è quello demografico. Anche nel 2022 si osserva un nuovo superamento al ribasso del record di denatalità. Le nascite tra la popolazione residente sono 393.333 nel 2022, 6.916 in meno rispetto al 2021 (-1,7%). Rispetto al 2008, anno in cui si è registrato il più alto numero di nati dall’inizio degli anni Duemila, oggi si rilevano oltre 183mila nascite in meno (-31,8%).

A questo declino demografico si aggiungono circa 100mila italiani che ogni anno abbandonano il nostro Paese, mentre nel 2022 e ancor più nel 2023 gli immigrati che giungono clandestinamente nel nostro paese hanno superato questa cifra.

Il declino del sistema educativo (scuola e università) nel corso degli ultimi decenni ha portato alla crescita esponenziale dell’analfabetismo “funzionale” o di “ritorno”, che in Italia raggiunge la percentuale più in alta in Europa (28%) tra i paesi dell’area OCSE.

Non basta: insieme a questo declino siamo costantemente minacciati dall’esplosione di una crisi finanziaria che potrebbe portare il nostro Paese in default. Ci siamo andati vicino nel 2011 con lo spread a 500, ma la Troika rimane sempre in agguato.

Qual è l’origine di questo declino, di queste disuguaglianze e di queste minacce? Un “oscuro destino” che sembra condannare gli Italiani, oppure c’è una causa precisa di questa situazione? Dopo la fine della prima Repubblica, spazzata via da una tabula rasa giudiziaria su cui si deve ancora raccontare la verità, tutti i governi che si sono susseguiti hanno promesso un’inversione di tendenza e un profondo cambiamento. Ma tutti hanno fallito e nessun governo in carica è mai stato confermato alle elezioni successive.

NOI SIAMO CONVINTI CHE LA VERA ORIGINE DI TUTTO QUESTO SIA LA DEFINITIVA PERDITA D’INDIPENDENZA DELLA NOSTRA NAZIONE.

L’Italia è sempre più una colonia al servizio di poteri esterni alla nostra comunità nazionale. E una colonia non può non essere un paese in declino, con una classe dirigente impotente perché rassegnata e funzionale a questo destino.

CHE COSA È L’INDIPENDENZA ITALIANA

Riflettiamo: accettereste che qualche estraneo si prenda le vostre chiavi di casa?

Potreste mai pensare di avere sicurezza e benessere se quell’estraneo potesse entrare a piacimento nella vostra casa, dettando regole sulla vostra vita, portando via i vostri beni, decidendo chi può entrare o uscire?

L’indipendenza personale non è forse per ogni individuo il primo fondamento della libertà e di ogni possibilità di crescere, sia moralmente che economicamente?

Spostate queste immagini dalla vostra vita personale al destino della nostra comunità nazionale: ci potrà mai essere sviluppo e dignità per l’Italia, potremo mai fermare il nostro declino, se le nostre chiavi di casa rimangono in mano a poteri esterni alla nostra Comunità nazionale e quindi fuori dal controllo della nostra democrazia?

Ebbene, è quello che accade in Italia.

Sul nostro territorio ci sono 120 basi americane e NATO, nonostante la guerra fredda con l’URSS sia finita da più di trent’anni. Non sono un residuato del passato: attraverso l’Alleanza atlantica, che pure dovrebbe essere un’alleanza solo difensiva, in questi ultimi anni siamo stati trascinati in una tragica serie di guerre tutte contrarie al nostro interesse nazionale (bombardamenti in Serbia e nel Kosovo, seconda guerra nel Golfo, Afghanistan, Libia e Ucraina).

Non solo.

L’Unione europea, su cui il Popolo italiano non si è mai potuto esprimere attraverso un referendum (con una legge costituzionale si poteva e si doveva fare un’eccezione all’art.75 Cost.), ha accresciuto a dismisura negli anni il suo potere sulla nostra vita economica e sociale. Non abbiamo più sovranità monetaria e controllo sul nostro debito pubblico, come conseguenza della perdita di una nostra banca centrale; le nostre leggi finanziarie devono essere preventivamente autorizzate dalla Commissione europea, non possiamo dare aiuti di Stato alle nostre imprese (consentiti invece, in modo sempre più disparitario, ad altri paesi-membri dell’Unione); dobbiamo costantemente tagliare il nostro Stato sociale nell’illusione (finora delusa a causa dell’effetto recessivo o di stagnazione così creato) di ridurre la spesa pubblica, alle nostre frontiere non possiamo più controllare il transito di capitali, merci e persone. Adesso il Consiglio e la Commissione vogliono anche imporci trattati che aumenteranno il nostro rischio di andare di default, come il MES e le nuove regole del Patto di stabilità.

L’Unione europea in nome dei diritti civili ci impone comportamenti che negano la nostra identità e la nostra religione, con la scusa del cambiamento climatico ha calato dall’alto le regole assurde della transizione green, con l’emergenza della pandemia ci ha fatto accettare campagne vaccinali ad alto rischio per la nostra salute.

I principi fondamentali della nostra Costituzione, che dovrebbero essere la prima fonte del nostro Diritto e della nostra Democrazia, sono stati compromessi per obbedire ai Trattati europei e agli accordi internazionali ad essi connessi con cui abbiamo ceduto la nostra sovranità. Al contrario, sarebbe necessario, come peraltro era nel programma di governo dell’attuale maggioranza, inserire nella Costituzione una clausola simile a quella vigente nella Legge Fondamentale della Repubblica Federale Tedesca, in base alla quale non possono essere accolte nell’ordinamento norme internazionali o accettati vincoli esterni non conformi ai principi stabiliti dalla Carta costituzionale.

Se tutto questo non bastasse, si aggiungono anche i diktat di autorità internazionali – prive di ogni forma di controllo democratico – che condizionano la nostra vita: dall’ OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) al WTO (Organizzazione mondiale del commercio), dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) al G7 (Gruppo dei 7 Stati più economicamente avanzati guidati dagli Stati Uniti), organismi tutti inscritti nel sistema di regole promosso dai gruppi finanziari globali, che condizionano non solo la nostra vita politica ma perfino quella degli Stati Uniti. Dietro queste autorità internazionali e grazie alla globalizzazione si muovono senza nessun controllo gruppi multinazionali e speculazioni finanziarie che ci impongono scelte tecnologiche pericolose per la nostra libertà individuale, la nostra salute e la nostra sopravvivenza economica.

Certo, ognuna di queste sudditanze deriva da un trattato che l’Italia ha sottoscritto in passato, senza rendersi conto delle conseguenze, se si ha riguardo alle condizioni “emergenziali” che storicamente hanno contraddistinto l’acritico e poco informato atteggiamento del Parlamento nei momenti cruciali delle ratifiche; eppure, nel tempo i vincoli non sono mai stati rimessi in discussione e sono diventati sempre più pesanti e stringenti per L’INADEGUATEZZA CULTURALE, ETICA E POLITICA DELLE NOSTRE CLASSI DIRIGENTI.

Tutti i nostri governi hanno subito questi vincoli, come se fosse impossibile rimetterli in discussione, anche quando la loro applicazione pratica andava ben al di là della lettera e dello stesso oggetto e scopo dei Trattati. Anzi, li hanno spesso propiziati per invocare la giustificazione del “vincolo esterno” come alibi per la propria sudditanza a interessi altrui.

Di fronte a tutto ciò ci possiamo stupire se l’Italia vive da decenni in un costante declino? Se manca lavoro, reddito e diritti sociali per la nostra gente? Se le nostre filiere industriali vengono acquisite, per essere chiuse o delocalizzate dai grandi gruppi esteri dei paesi dominanti (grazie agli effetti cumulati della moneta unica)?

Se i nostri giovani migliori devono cercare all’estero la loro realizzazione, mentre immigrati clandestini arrivano sulle nostre coste e marciscono senza nessuna prospettiva nelle nostre città? Se la nostra politica non riesce mai a mantenere le promesse elettorali e tutti i governi finiscono per fare le stesse scelte?

NON C’È UN SOLO PROBLEMA ITALIANO CHE NON ABBIA LA SUA ORIGINE DALLA NOSTRA MANCANZA D’INDIPENDENZA NAZIONALE.

Ci sono anche altre cause, naturalmente, ma questa è la vera origine del declino italiano.

Ecco cos’è l’Indipendenza italiana: il primo passo per tornare a far crescere la nostra Nazione.

PERCHÉ NASCE IL MOVIMENTO DELL’INDIPENDENZA ITALIANA

Per questi motivi, dopo un lungo periodo di attesa e di preparazione, nasce un nuovo movimento politico: il MOVIMENTO DELL’INDIPENDENZA ITALIANA.

Noi crediamo che solo lottando per la nostra Indipendenza nazionale si possa realizzare il vero cambiamento che fermerà il declino dell’Italia, costruendo un progetto politico fondato sull’identità, le tradizioni e il senso di appartenenza comunitaria del nostro popolo, attuando i principi fondamentali della nostra Costituzione, i valori della Dottrina sociale cattolica e dell’Umanesimo del Lavoro, che tutti insieme sono i pilastri della nostra cultura nazionale.

Per questo ci vogliamo incontrare con tutte le forze politiche e culturali che credono nel cambiamento dell’Italia e nella libertà del nostro popolo.

Con le comunità militanti provenienti dalla destra sociale e dal mondo nazionalpopolare, che rifiutano la trasformazione neo-conservatrice, liberista e ultra-atlantista dell’attuale centrodestra e del suo partito di maggioranza relativa.

Con i mondi del dissenso che nel corso del tempo si sono battuti contro i vincoli dell’Unione Europea e dell’Euro, contro le limitazioni alle libertà individuali imposte in nome delle “emergenze” pandemiche, ambientali e tecnologiche, contro le guerre e tutte le logiche imperialiste.

Con quella ampia parte del mondo cattolico che non ha rinunciato a difendere i valori non negoziabili della vita, della famiglia, della dignità umana e dell’ordine naturale dell’umana comunità solidale, comprendendo il profondo legame che esiste tra la difesa di questi principi e la tutela dei diritti sociali della gente.

Con quei militanti che vengono da sinistra, ma rifiutano le derive radical-progressiste e globaliste del PD di Elly Schlein, perché sono consapevoli che la sovranità nazionale e i valori identitari sono la necessaria premessa per affermare i diritti sociali e del lavoro.

NOI SIAMO CONTRO OGNI FORMA DI SETTARISMO, quello che deriva da pregiudizi storici e ideologici, ormai inservibili e soltanto strumentalmente divisivi di un popolo oppresso, mentre, per conseguenza, la politica si riduce ad ambizioni personali di corto respiro e all’intermediazione degli interessi di gruppi di potere sovranazionali o esteri.

IL POPOLO ITALIANO DEVE UNIRSI PER ROMPERE IL “TEATRINO DELLA POLITICA” UFFICIALE, in cui le risse per il potere – abilmente indotte, da chi detiene il controllo sovranazionale dell’agenda mediatica e culturale, su priorità artificiali o su rivendicazioni puramente “cosmetiche” – convivono con il consociativismo e l’equivalenza dei programmi di governo.

PER QUESTO IL NOSTRO MOVIMENTO NASCE DALL’UNIONE DI TANTE ESPERIENZE DIVERSE ED È PRONTO AD INCONTRARSI E AD ALLEARSI CON CHIUNQUE CONDIVIDA QUESTA NECESSITÀ DI CAMBIAMENTO.

SIAMO UN MOVIMENTO POLITICO, MA VOGLIAMO CRESCERE CON FORTI RADICI METAPOLITICHE E CULTURALI.

Per affrontare la grande sfida di far rinascere l’Italia bisogna lavorare intensamente sul piano culturale e avere un forte senso di appartenenza comunitaria fondato sulla militanza e sul volontariato politico e sociale. Solo così si potranno elaborare proposte serie e profonde e far crescere uomini e donne capaci di vincere ogni personalismo e ogni egoistico interesse materiale, al quale viene asservito ogni individuo, sradicato dalla sua dimensione comunitaria e solidale, in nome di un “consumismo senza senso” e di una narcisistica civiltà dell’immagine… riflessa allo specchio, in una disperata solitudine, competitiva tra individui senza radici e consapevolezza spirituale.

NOI VOGLIAMO ESSERE L’OPPOSTO DEI PARTITI PERSONALI E SETTARI, dove

tutto si riassume nella figura del leader, dove nascono cerchi magici e ras locali. Non deve emergere l’“Io” ma il “Noi”, il nostro motore non devono essere le ambizioni personali e le complicità tribali, ma l’attenzione agli altri, il senso di appartenenza e il radicamento popolare e territoriale.

NOI CREDIAMO NELLA PARTECIPAZIONE E NELLA DEMOCRAZIA INTERNA come

strumento per far emergere le persone migliori e più rappresentative, senza imposizioni dall’alto e senza yes man al servizio dei capi. Per questo, non appena possibile, ogni nostra carica centrale e periferica sarà eletta dai militanti, senza imposizioni verticistiche.

NOI CREDIAMO NEL CONFRONTO TRASPARENTE E LEALE CON TUTTI, con tutte le

forze politiche, con le liste civiche che rappresentano il territorio, con le forze sociali e i corpi intermedi che articolano la società civile, perché non ci consideriamo i portatori della verità, perché vogliamo unire e non dividere, perché vogliamo cercare risposte autentiche e rifiutiamo la polemica fine a sé stessa, le promesse elettorali irrealizzabili.

Noi non proponiamo sogni ideologici e avventure pericolose, noi vogliamo proteggere il Popolo italiano all’interno del ripristino della legalità costituzionale.

MA NON RINUNCIAMO ALLA SPERANZA DEL CAMBIAMENTO, PERCHÉ NON CI RASSEGNIAMO AL DECLINO DELL’ITALIA.

CHI OSTACOLA L’INDIPENDENZA ITALIANA

Chi sono i nostri avversari? Quali forze costituiscono il potere destabilizzante a cui opporsi?

I nostri avversari non sono individuati dai “conflitti sezionali”, cioè quei conflitti che contrappongono tra loro le categorie produttive, i cittadini comuni che basano la loro sopravvivenza sul lavoro: questi conflitti sezionali sono il “divide et impera” infuso dalle

élite sovranazionali per sedare, distraendolo, il malcontento insito nel conflitto sociale in cui le forze oligarchiche del capitale neo-liberista “mondializzato”, cercano di prevalere, abolendo tutte le conquiste sociali raggiunte nei tormenti e nelle lotte del XX secolo, ripristinando la timocrazia capitalista ottocentesca.

NOI NON ACCETTIAMO DI METTERE GLI ITALIANI GLI UNI CONTRO GLI ALTRI.

Basta con i vecchi trucchi di mettere lavoratori contro imprenditori, lavoratori dipendenti contro lavoratori autonomi e partite IVA, dipendenti pubblici contro dipendenti privati, Italiani del Nord contro quelli del Sud, ceto medio contro classi popolari, giovani contro anziani.

BASTA CON LA DIFFAMAZIONE D’INTERE CATEGORIE: i lavoratori autonomi non sono tutti evasori, i commercianti non sono tutti truffatori, i dipendenti pubblici non sono tutti fannulloni, i politici non sono tutti ladri,…

Questi falsi conflitti servono solo a DIVIDERE IL POPOLO PER MEGLIO CONTROLLARLO E IMPADRONIRSI DELLE SUE RISORSE PUBBLICHE E PRIVATE.

Certo, ci possono essere problemi e tensioni conflittuali tra le diverse categorie, ma il vero conflitto politico e sociale è tra l’insieme del popolo e le élite cosmopolite che vivono e si arricchiscono ai danni della comunità popolare, cioè di chi vive del proprio lavoro (e non può essere continuamente colpevolizzato per presunte responsabilità corrispondenti alla “morale” imposta dai pochi ricchissimi che vivono spogliando del benessere e della dignità l’intero consorzio umano).

QUESTE “ÉLITE COSMOPOLITE”, L’ESTABLISHMENT DEL CAPITALISMO NEO- LIBERISTA E FINANZIARIZZATO CHE SI ESPANDE “AL RIPARO DAL PROCESSO ELETTORALE”, SONO IL NOSTRO NEMICO.

SONO I REFERENTI DELLA FINANZA GLOBALE CHE CONTROLLA I PRINCIPALI GRUPPI OLIGOPOLISTICI DEL CAPITALISMO NEO-LIBERISTA CHE OPERANO IN TUTTO IL MONDO E QUINDI ANCHE IN ITALIA.

QUESTI GRANDI GRUPPI GLOBALI IN OGNI SETTORE PRODUTTIVO SCHIACCIANO L’ECONOMIA REALE FATTA DAI LAVORATORI E DAGLI IMPRENDITORI RADICATI

NEL TERRITORIO. Generano “poteri forti”, rendite parassitarie e nomine burocratiche per cooptare quegli italiani che si conformano a loro, tradendo il nostro popolo e la nostra nazione.

Queste élite diffondono, partendo dall’Agenda di Davos del Word Economic Forum, una IDEOLOGIA OCCIDENTALISTA che si nasconde dietro tanti volti, che vuole darsi un fondamento “etico” e scientifico, ma in realtà è solo L’IDEOLOGIA DEL DOMINIO DEL CAPITALISMO NEO-LIBERISTA. Si chiama neo-liberismo in campo economico, ma rappresenta una nuova forma di darwinismo sociale, col suo corollario malthusiano della drastica limitazione demografica della popolazione.

Professa l’immigrazionismo, la positività della moltiplicazione dei flussi migratori, come celebrazione del multiculturalismo cosmopolita, ma il suo scopo è la creazione di “un esercito industriale di riserva” per fare concorrenza ai nostri lavoratori, alimentando una società para-schiavistica funzionale agli schemi liberisti post-industriali.

L’establishment finanziario globale presenta come difesa dei diritti umani il riconoscimento giuridico di desideri individuali coltivati da minoranze, come le rivendicazioni Lgbtq+, le adozioni omosessuali e l’“utero in affitto”, la gender theory e la possibilità arbitraria di “cambiare genere”, mentre distrugge il benessere e le speranze di una vita dignitosa della schiacciante maggioranza dei cittadini. Inventa la cancel culture, l’ideologia woke, ogni forma di materialismo e di consumismo; arriva al “transumanesimo”, per alterare, attraverso la scienza e la tecnica, l’ordine naturale della condizione umana.

BISOGNA SMASCHERARE L’IDENTIFICAZIONE TRA LA LIBERA INIZIATIVA ECONOMICA E IL CAPITALISMO NEO-LIBERISTA, PERCHÉ IN REALTÀ SONO UNA L’OPPOSTO DELL?ALTRA.

L’economia libera garantisce la proprietà privata e la libera iniziativa, il Capitalismo nega questa libertà, perché, imponendo il dominio di chi detiene più potere finanziario, tende a proletarizzare il ceto medio e a sottomettere la libera imprenditoria ai grandi gruppi monopolistici. Lo vediamo ogni giorno, registrando l’impoverimento del ceto medio e il soccombere della piccola e media impresa di fronte ai grandi gruppi economici e finanziari.

ECCO PERCHÉ OGGI SI PUÒ COSTRUIRE L’ALLEANZA TRA CETO MEDIO E CETI POPOLARI, CHE ALTRO NON È CHE L’INSIEME DELLE PERSONE CHE VIVONO DEL

PROPRIO LAVORO. Il ceto medio – fatto di piccoli imprenditori, di lavoratori autonomi, di funzionari e di impiegati – è esposto alla povertà quanto gli operai e i contadini, tutti rischiano di cadere nel buco nero della disoccupazione o del “lavoro povero”. Il potere finanziario, attaccando il ceto medio colpisce il luogo della mobilità sociale e blocca l’unico ascensore sociale che può dare prospettive ai ceti popolari.

Oggi parlare di un popolo unito contro le élite finanziarie non è un espediente populista, è la fotografia della realtà:

L’ALLEANZA TRA CETO MEDIO E CETI POPOLARI È IL BLOCCO SOCIALE CHE PUÒ RIVENDICARE L’INDIPENDENZA NAZIONALE PER COSTRUIRE SVILUPPO ECONOMICO E GIUSTIZIA SOCIALE.

LA CARTA DEI PRINCIPI
DELL’INDIPENDENZA ITALIANA

Cinque sono i pilastri su cui si fondano i principi dell’indipendenza italiana

PRIMO PILASTRO – LA CULTURA IDENTITARIA E L’APPARTENENZA COMUNITARIA DEL POPOLO ITALIANO

Il Popolo italiano non è un’invenzione, come sempre più spesso tentano di farci credere coloro che attaccano la nostra indipendenza nazionale.

Pur tra mille differenze e antichi retaggi di odio e divisione, esiste un’identità profonda del nostro popolo, mai sopita nel corso dei millenni, che è la base della sua appartenenza comunitaria.

Una stessa lingua e una religione comune, una terra meravigliosa ben definita dai suoi confini naturali, una cultura comune e un enorme patrimonio storico e artistico; una storia millenaria che, tra molte difficoltà, diventa Stato unitario 160 anni fa, facendo rinascere, (fino all’interferenza denazionalizzante del “vincolo esterno”) un carattere prevalente, un universo simbolico e una grande eredità di sacrifici comuni, in guerra e in pace. Come popolo, possiamo e dobbiamo rivendicare, orgogliosamente, radici profonde che attingono all’antichità classica romano-ellenistica, alle origini del Cristianesimo, al filone più profondo e luminoso della Tradizione europea.

Non è solo passato: è un presente e un futuro fatto di lotte comuni e di creatività. Una crescita democratica e comunitaria che è stata possibile solo perché esistono una cultura e una storia comuni. Un patrimonio industriale ed economico, di made in Italy, di antichi saperi e di conoscenze tecniche e scientifiche, che rappresenta la nostra ricchezza come popolo. Quindi un naturale substrato solidale che, negli ultimi decenni, l’alterazione socio-economica orchestrata dalle élite cosmopolite ha cercato di minare alle sue basi.

Difendere e valorizzare la propria identità non significa chiudersi, ma porre l’unica base possibile per una vera apertura al mondo, una spinta esistenziale per attingere ai valori universali della persona umana e ai diritti di ogni popolo.

SECONDO PILASTRO – LA DOTTRINA SOCIALE CATTOLICA COME SOSTEGNO ALLA PERSONA UMANA

Il Cattolicesimo è un elemento costitutivo della nostra identità nazionale, che contribuisce a rendere il nostro popolo più resistente di altri agli attacchi del transumanesimo e al darwinismo sociale del neo-liberismo. Perché la spiritualità – nel pieno rispetto della laicità dello Stato, di ogni libertà religiosa e del valore del dialogo interreligioso – sostiene la personalità umana e rafforza l’appartenenza comunitaria.

La dottrina sociale cattolica si rivolge a tutti gli uomini e donne (a qualsiasi religione appartengano), non è un’ideologia o una teoria economica e sociale, ma può essere una strada verso una critica non ideologica del capitalismo. Ci indica i fondamenti spirituali dell’essere comunità sociale, la solidarietà, la libertà e la dignità della persona umana, il valore della vita e della famiglia, il principio di sussidiarietà – quella vera delle famiglie e delle associazioni veramente autonome, non quella ipocrita che serve da copertura agli attacchi liberisti contro lo Stato sociale – e quello della partecipazione, la funzione sociale che deve avere qualsiasi forma di possesso privato.

Ci insegna a riconoscere il Lavoro come parte insostituibile della realizzazione umana e la legittimazione comunitaria di ogni potere politico e istituzionale. Pone limiti precisi al dominio della scienza e della tecnica partendo dal rispetto dell’ordine naturale e dei limiti della condizione umana.

Nello scenario internazionale afferma i diritti dei popoli all’autodeterminazione, il valore insostituibile della pace, il confronto tra le identità nazionali e comunitarie, il dialogo interreligioso e i diritti universali della persona umana.

TERZO PILASTRO – L’UMANESIMO DEL LAVORO

L’Umanesimo del Lavoro unisce la Dottrina sociale cattolica con la laicità delle grandi correnti repubblicane e socialiste, l’insegnamento migliore di Giovanni Gentile e degli altri pensatori nazionalpopolari, le lotte operaie e contadine e le realizzazioni creative della vera imprenditoria italiana, trova una delle sue più alte realizzazioni nel Testo costituzionale del 1948.

È il richiamo profondo e necessario del nostro tempo, dove non è possibile parlare di dignità della persona umana, di spiritualità diffusa a livello popolare, di creatività e di apertura verso il mondo senza passare attraverso il diritto al Lavoro, come compito primario dello Stato declinato nella ricerca di un’effettiva piena occupazione. Un lavoro che deve essere offerto a tutti e il cui giusto guadagno deve essere garantito con la tutela dei diritti dei lavoratori.

L’interesse nazionale è l’interesse del lavoro italiano: lavoro che si articola nella sua forma imprenditoriale, salariata, autonoma, pubblica o privata (come sancito dalla nostra Costituzione). Il lavoro sviluppato in tutte le sue forme garantisce la sovranità popolare: la democrazia lavoristica non può essere limitata da vincoli alla sovranità nazionale, che sono vincoli allo sviluppo economico della nazione e al benessere materiale e spirituale degli italiani.

Non è un caso che le regole del commercio internazionale imposte dai trattati UE e dal WTO impediscono la piena occupazione e tutte quelle importanti “tutele” che preservano il lavoro come baricentro della famiglia, rendendo pressoché irraggiungibile il livello di reddito e di sicurezza che permettono la formazione delle famiglie per i nostri, già pochi, giovani.

QUARTO PILASTRO – L’AUTODETERMINAZIONE E I DIRITTI DEI POPOLI

Il 10 dicembre 1948 veniva adottata la “Dichiarazione universale dei diritti umani”, documento fondamentale ma che è stato troppo spesso strumentalizzato per prevaricare i diritti dei popoli in nome di astratte libertà individuali. Questa Dichiarazione è stata usata come alibi dell’unipolarismo americano per “esportare la democrazia” con “guerre umanitarie” che hanno sterminato popoli, distrutto nazioni e destabilizzato intere aree geografiche.

Per difendere i diritti dei popoli il 4 luglio 1976 un gruppo informale di esperti e di politici ha formulato la “Dichiarazione universale dei diritti dei popoli”, definita “Carta di Algeri”, di cui il principio dell’autodeterminazione è l’asse portante.

Basta leggere due articoli chiave della Carta di Algeri:

Articolo 2 – Ogni popolo ha diritto al rispetto della propria identità nazionale e culturale.

Articolo 5 – Ogni popolo ha il diritto imprescrittibile e inalienabile all’autodeterminazione. Esso decide il proprio statuto politico in piena libertà e senza alcuna ingerenza esterna.

L’Indipendenza italiana si iscrive all’interno del principio dell’autodeterminazione, che vale per tutti i popoli, contro ogni forma di imperialismo e di mondialismo. Per questo non è e non può essere nazionalismo proteso a negare o prevaricare i diritti degli altri popoli: l’art.11 della Costituzione, non distorto da opportunistiche interpretazioni recenti, attesta come l’Italia privilegi la cooperazione pacifica affinché ogni popolo possa liberamente decidere del proprio destino, in termini di identità culturale e di valorizzazione delle proprie risorse; cioè, senza subire pesanti interferenze politiche di potenze economiche e militari che mirano all’appropriazione delle sue ricchezze e alla cieca assimilazione mercatista, consumista, dei popoli, tacciati strumentalmente di “arretratezza”.

Il fallimento di tutte le cosiddette “guerre umanitarie” di questo secolo è testimonianza evidente della verità di questi principi, che sono anche l’unica strada per porre termine ai conflitti che in questi mesi abbiamo visto esplodere in Ucraina e in Palestina.

L’autodeterminazione dei popoli si identifica con la sovranità nazionale e popolare, che insieme raccolgono l’eredità migliore delle lotte politiche della destra e della sinistra contro ogni forma di imperialismo economico e militare.

QUINTO PILASTRO – I PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

Tutti i principi fin qui espressi trovano una sintesi storica e un fondamento istituzionale nella Costituzione della Repubblica italiana. Non importa che l’Assemblea costituente avesse dietro le spalle una guerra civile e una sovranità limitata dal Trattato di pace; quello che è fondamentale è che fu votata dalla schiacciante maggioranza degli Italiani e che in essa trovarono un punto di incontro e di sintesi tutti i migliori filoni della cultura nazionale.

Nella Costituzione sono sanciti i principi fondamentali di sovranità popolare e di democrazia sociale e del lavoro che giustificano la lotta per l’indipendenza italiana.

Pertanto, la “sponda” che possiamo avere nella nostra difficile battaglia, è che il mutamento istituzionale da noi auspicato coincide con il ripristino, legalitario al massimo livello, del modello sociale e politico-economico della nostra Carta costituzionale.

Si deve rivendicare che la nostra Costituzione, in tutte le sue norme sostanziali (escluse quindi solo quelle organizzative e procedurali, soggette al solo limite dell’immutabilità della “forma repubblicana”, come garanzia della sovranità popolare), diverge radicalmente dal sistema dei Trattati europei, con le sue regole sul ruolo della banca centrale, sugli aiuti di Stato, con i suoi severi limiti fiscali, con le sue imposizioni di «privatizzazioni» e

«liberalizzazioni», con la sua scarsa attenzione al risparmio e alla tutela del sistema bancario: “vincoli esterni” che, nel loro insieme, sono la causa del declino italiano.

La Costituzione italiana:

  • sancisce che la sovranità appartiene al popolo; che i diritti civili e sociali sono inviolabili in un quadro di solidarietà politica, economica e sociale; che devono essere rimossi gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana; tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività; i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio;
  • stabilisce che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, mentre la proprietà privata deve avere una funzione sociale e deve essere accessibile a tutti, con il conseguente divieto di accentramento eccessivo della ricchezza nelle mani di pochi. E ciò non già per ragioni meramente economiche, ma perché, come ricordavano i Costituenti, la concentrazione privata di potere economico concentra anche, inevitabilmente, il potere politico-istituzionale in poche mani, e distrugge il funzionamento legalitario di una democrazia pluriclasse, concetto oggi più attuale che mai;
  • riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto; il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro; il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende;
  • incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito; previsioni incompatibili con qualsiasi forma di indipendenza della Banca Centrale. Quest’ultima è indipendenza dai processi democratici- costituzionali, perché in realtà la formula dell’indipendenza nasconde una stretta dipendenza, della banca centrale stessa, dagli interessi del sistema finanziario; e tale sistema, a sua volta, è sempre più controllato dai grandi gruppi esteri, divenuti i principali azionisti del settore, via via che si sono dispiegati gli effetti della moneta unica e della liberalizzazione globale della circolazione dei capitali. In connessione, la Costituzione favorisce la formazione del risparmio popolare, e ne assume come prioritaria la tutela, ai fini dell’accesso alla proprietà dell’abitazione, della piccola e media impresa agricola e dell’impresa artigianale, che sarebbe oggi definita, come micro e piccola impresa, conforme alla libertà di iniziativa economica volta alla “utilità sociale” di cui si occupa l’art. 41 Cost.;
  • ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente alle limitazioni di sovranità esclusivamente ove necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, solo in condizioni di parità con gli altri Stati.

Tutti questi principi sono contrari ai vincoli dell’“economia di mercato fortemente competitiva” (ordoliberista) che caratterizzano i Trattati europei, nonché l’adesione acritica agli interventi militari imposti dall’Alleanza atlantica, alteranti la natura esclusivamente difensiva del Trattato NATO.

IL MANIFESTO PROGRAMMATICO DELL’INDIPENDENZA ITALIANA

PRIMO – SUPERARE I VINCOLI EUROPEI PER TORNARE A CREARE E DISTRIBURE RICCHEZZA, RICOSTRUENDO I DIRITTI SOCIALI E DEL LAVORO DEGLI ITALIANI

La riconquista dell’indipendenza nazionale è una precondizione per rimettere l’Italia sulla via dello sviluppo, dopo più di vent’anni – dall’introduzione dell’Euro – di sostanziale stagnazione, dopo la profonda ristrutturazione in negativo della nostra economia operata dal Governo Monti e con la prospettiva di crescita nei prossimi anni inferiore all’1% del Pil.

In questo campo la sovranità nazionale e popolare deve essere affermata innanzitutto nei confronti dei vincoli europei che, in nome dell’austerità e del liberismo, ci impediscono di fare politiche di crescita e di redistribuzione. Infatti gli aggiustamenti degli squilibri commerciali e finanziari nell’eurozona sono perseguibili solo entro la cornice del Patto di stabilità e del suo inasprimento nel Fiscal compact (principio del pareggio di bilancio, colpevolmente recepito in Costituzione), cioè mediante consolidamento fiscale incessante, confermato, in pejus, dalla proposta, attualmente in discussione, della nuova governance UE: ciò dà luogo ad un’indiscriminata compressione della domanda interna, che riduce i consumi e quindi la produzione industriale, la corrispondente occupazione e la propensione all’investimento nazionale. Questa impostazione, propria del regime della moneta unica, dovrebbe propiziare, tramite continue spinte deflazionistiche, la competitività “esportativa”, forzata sull’aggiustamento verso il basso del costo del lavoro, affidando quindi alle sole esportazioni, le magre possibilità di crescita del prodotto nazionale.

La consapevolezza di questa situazione è confusamente presente nel popolo italiano che, pure, non è mai stato correttamente informato sul tema: la fiducia dell’Unione Europea è scesa ai minimi negli anni successivi al Governo Monti (dal 2014 al 2017 era tra il 29 e il 30%), poi gli insuccessi e i “ripensamenti” dei partiti che apparivano sovranisti hanno portato ad un forte recupero fino al 45% nel 2022, mentre nel 2023 questa fiducia è tornata a diminuire al 38% (Demos febbraio 2023). Ma se il quesito viene posto sull’opportunità di uscire o rimanere nell’UE o nell’Euro, le percentuali si ribaltano e la maggioranza degli italiani dichiara di voler rimanere. Segnale che c’è delusione rispetto alle istituzioni europee, ma si ritiene svantaggioso o pericoloso uscire da questo contesto.

Per questo motivo e per l’oggettiva difficoltà di governare un simile strappo, il nostro percorso per riacquisire una sovranità economica deve cominciare a muoversi per tappe verso il ripristino della piena indipendenza. Ci sono spazi politici e giuridici per intraprendere in modo legittimo e graduale questa strada, purché vi sia una forte volontà politica e una chiarezza strategica che eviti compromessi al ribasso e le trappole con cui gli organi di Bruxelles cercheranno di fermarci. Senza mai dimenticare che nel TUE

(Trattato sull’Unione Europea) esiste l’art. 50 che recita: “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione”.

Deve però essere chiaro qual è l’obiettivo economico e sociale di questo recupero di sovranità nazionale. Qui non si tratta di criticare l’Unione europea solo per l’eccesso di opacità dei suoi processi decisionali accentrati in lontani palazzi, per la sua tecnocrazia verticale, che si manifesta in molte direttive fondate su un pretestuoso e forzato concetto di concorrenza, o per la tendenza a diventare un mostruoso super-stato burocratico: critiche queste che spesso assumono un paradossale sapore ultra-liberista. La vera critica che va mossa alle istituzioni di Bruxelles è che queste, proprio per il loro impianto ordo- liberista imposto dalla Germania – impianto che deriva direttamente e dichiaratamente dai Trattati – impediscono agli stati membri di attuare sia politiche anticicliche per promuovere la crescita e ricostruire le filiere industriali, che politiche di redistribuzione per l’equità sociale e il sostegno del mercato interno.

NON SEMPLICI SUSSIDI ALLE IMPRESE, MA INVESTIMENTI PER RICOSTRUIRE IL NOSTRO TESSUTO PRODUTTIVO

Altro errore che va evitato è quello di pensare che sia possibile rimettere in moto la nostra economia semplicemente aumentando la spesa pubblica o riducendo le tasse, come promettono politiche demagogiche di sinistra o di destra, senza un coerente piano industriale che rilanci il Paese e lo spinga alla piena indipendenza nei settori di interesse strategico.

Spendere di più e fare deficit sovrano è fondamentale ed è la precondizione per invertire la rotta dettata dall’austerità perenne che impone l’Unione Europea, ma avrà un effetto benefico nella vita dei cittadini solo se questa spesa si rifletterà anche nella ripartenza della reale capacità produttiva ed industriale. Non meri sussidi alle imprese che con gli standard normativi attuali, posti pure nel PNRR, finiscono per costituire sussidi alle importazioni cioè alla crescita e all’occupazione di altri paesi, ma lavoro, e quindi maggior reddito disponibile, creato dalla ricostituzione della capacità di produzione, con uno Stato che deve tornare direttamente protagonista in ambito industriale, laddove necessario come prevede la Costituzione. Per poterlo fare deve essere attrezzato anche a recuperare ciò che è stato inopportunamente, e sotto costrizione degli arbitrari limiti fiscali dell’eurozona, ceduto ai privati, nella lunga campagna di svendita del Paese partita dai primi anni novanta.

Le privatizzazioni sono infatti avvenute sotto la formale giustificazione di problemi di gestione del debito pubblico, peraltro creati artificialmente dalla disciplina fiscale introdotta da Maastricht; il risultato di queste privatizzazioni, del vincolo di parità di cambio col marco, e delle successive “cure” di aggiustamento fiscale, è stata la scomparsa di intere filiere strategiche e la riduzione, senza precedenti, della nostra capacità manifatturiera. Per questo, nella situazione attuale, a maggior ragione di fronte agli obblighi di transizione verde e digitale, nonché a causa dei costi energetici lievitati in connessione a ciò ed al fattore “guerra” con la Russia, un semplice aumento dei

consumi porterebbe ad un aumento delle importazioni e quindi ad una squilibrio nella bilancia dei pagamenti con l’estero, aprendo la porta al default del nostro Paese.

In sintesi la nostra indipendenza nazionale, e quindi dai vincoli economici di Bruxelles, deve tradursi in politiche keynesiane di investimenti industriali pubblici ad alto moltiplicatore per creare e ridistribuire ricchezza.

RIPRISTINARE I DIRITTI SOCIALI DEGLI ITALIANI, DIFENDENDO IL WELFARE COSTITUZIONALE

Queste politiche prioritarie, corrispondenti ad un intervento tipicamente sull’offerta, – giustificate più che da un semplice ciclo economico avverso da un vero e proprio “andamento di lungo periodo” che ha negativamente ristrutturato la nostra economia -, vanno compiute di pari passo con, e per, la preservazione del welfare costituzionale: sanità, istruzione e sistema pensionistico pubblici, implicano interventi, di adeguamento della spesa corrente, che si traducano, appunto, in un adeguato livello delle prestazioni relative. Adeguato al “livello di civiltà” che l’Italia può e deve reclamare, senza il continuo arretramento neo-liberista che è indotto dalle regole fiscali della moneta unica e dal volutamente imperfetto statuto della BCE.

Le prestazioni previste dalla Costituzione come reddito indiretto (sanità e istruzione pubbliche come servizi universali, assistenza sociale) e reddito differito (sistema previdenziale) non devono essere ridotte ai “livelli essenziali” (LEP) come prevede l’improvvida riforma del Titolo V della Costituzione, adottata sotto l’impulso della costrizione fiscale della moneta unica e dell’impostazione ordoliberista dei Trattati europei; devono anzi esprimere il massimo sforzo solidale, delle Istituzioni democratiche, di essere “al servizio” della Nazione, per erogare, a tutti i cittadini, senza esclusioni, il più idoneo e avanzato insieme di prestazioni pubbliche che contraddistinguono una democrazia solidale e sociale.

Sotto questo profilo va aggiunto che gli investimenti, segnatamente in infrastrutture, implicano l’aumento dell’occupazione del personale addetto, e debitamente specializzato, alla loro gestione e manutenzione. Vale a dire, oltre alla gestione di scuole, ospedali e di enti previdenziali razionalmente indirizzati negli investimenti, occorre, come tutti ben percepiscono dalla loro esperienza personale e sociale, ripristinare i livelli adeguati (di civiltà) anche nella vigilanza e nell’intervento manutentivo del territorio, nel decoro stesso del tessuto urbanistico; tutti aspetti che passano in modo necessariamente coordinato sia per la spesa corrente che per gli investimenti pubblici.

Tuttavia, è bene tenere presente che questa politica ideale (vorremmo dire: legale- costituzionale), ora più che mai, deve corrispondere ad una capacità nazionale di esprimere la produzione in filiere industriali che creino valore sul territorio nazionale affinché la spesa pubblica, sia in investimenti che corrente, e la spesa privata che immediatamente da essa verrebbe indotta, non si traducano in sostegno all’economia dei paesi grandi esportatori e grandi manifatturieri del nuovo palcoscenico globale.

Dunque, queste politiche ideali e legali-costituzionali, devono essere mirate prioritariamente  a  spingere,  per  spontanea  convenienza  e  per  naturale

“propensione”, il risparmio privato nazionale a finanziare l’azione dello Stato nonché a finanziare anche il sistema nazionale delle imprese, ponendo fine alla caduta pluridecennale degli investimenti pubblici e privati; ciò, prioritariamente, attraverso l’acquisto di titoli di Stato, che ritornino ad essere una sicurezza, comparativamente ad altre alternative, per il risparmio delle famiglie.

LE PRECONDIZIONI PER RICOSTRUIRE L’INDIPENDENZA ECONOMICA DALL’INSIEME DEI VINCOLI SOVRANAZIONALI

Non ci si può nascondere, tuttavia, che affinché ciò si realizzi, occorre che si verifichino delle pre-condizioni senza le quali ogni politica economica espansiva è destinata a fallire in breve tempo (come dimostra la fine del governo Berlusconi nel 2011).

Il capitalismo “sfrenato”, onnivoro del benessere generale in nome del falso idolo del mercato, altrettanto falsamente concorrenziale, – laddove invece è caratterizzato dalla crescente concentrazione finanziaria ed industriale a livello globale, quindi in poche mani dotate di sconfinato potere di “influenzamento istituzionale” -, si genera, come sta accadendo in questi ultimi decenni, a causa della globalizzazione e dei vincoli europei; simmetricamente, in un processo unitario, viene, vulnerata la capacità dello Stato democratico di garantire un equilibrato sistema di risoluzione del conflitto sociale, (come previsto dalla nostra Costituzione). Che è poi un altro modo di esprimere il concetto, già visto sopra, che uno Stato democratico persegue un’effettiva piena occupazione. Va infine notato che la frontiera del conflitto sociale nei tempi della globalizzazione si è spostata, mettendo dalla stessa parte lavoratori, ceto medio e piccola e media impresa nel conflitto contro i grandi gruppi globali.

In questa congiuntura, come detto, ormai strutturale, politiche “ideali” possono essere intraprese solo a compimento di un percorso difensivo che ci ponga al riparo dall’insieme delle regole istituzionali, altamente penalizzanti per l’Italia, dei Trattati e della moneta unica.

Un percorso di questo tipo è attualmente inibito, a tutti i nostri governi, dal “ricatto dello spread”: cioè dal combinato disposto dei poteri artatamente limitati di intervento (incerto e mai “garantito”) della BCE e dal potere dei “mercati”, cioè dei grandi gruppi finanziari globali (banche e fondi costituenti ormai un oligopolio sempre più ristretto), di condizionare gli Stati nel perseguimento dei loro fini istituzionali costituzionalmente sanciti, mediante la vendita speculativa dei titoli di stato da essi detenuti (dal deprezzamento in vendita sul c.d. mercato secondario, si determina infatti il maggior interesse sulle nuove emissioni, in un circolo vizioso che, come si dice ogni giorno, “fa saltare i conti” ed obbliga alla nefasta austerità fiscale e alla stagnazione o recessione).

La “messa in sicurezza” della possibilità dello Stato di perseguire le sopra descritte politiche economiche ed industriali (ricostituzione della capacità industriale attraverso il

c.d. “effetto sostituzione” della produzione in cui maggiore è il peso delle importazioni, nonché sostegno a redditi e occupazione attraverso il welfare pubblico e le funzioni pubbliche fondamentali di gestione del territorio), implica, anzitutto, a grandi linee, la mobilitazione del risparmio nazionale nell’investire entro i confini della Nazione, sia

in strumenti finanziari pubblici (il debito pubblico che trovi costantemente compratori avvantaggiati nei risparmiatori italiani) che in iniziative di investimenti di impresa privata.

Per ottenere ciò occorre guardare con attenzione a strumenti che sono previsti negli stessi trattati, e nello stesso complesso sistema di regole che governano la BCE e la moneta unica, e che consentirebbero di agire virtuosamente sfruttando le maglie delle varie clausole di emergenza poste, fin dal 1957, all’interno dei trattati stessi. Questo tipo di scelte, più che nel dettaglio tecnico, che non è questa la sede per affrontare, presuppone una forte consapevolezza della nostra classe di governo. E su questo, più che il dettaglio tecnico, appunto, gioca un ruolo decisivo l’atteggiamento dell’elettorato e la determinazione dei vari attori politici nel comunicare l’urgenza della fase di crisi epocale in cui siamo collocati per le ragioni qui complessivamente esposte.

Dalla messa in sicurezza, poi, sempre in una fase difensiva e preliminare alle politiche razionali che propugniamo, deriverebbe un effettivo aumento del potere negoziale italiano, al fine di intervenire, senza dover subire veri e propri ricatti, su profili come:

  1. i poteri della Banca centrale europea (o, ancora più efficacemente, il ritorno dei vari Stati aderenti alle rispettive banche centrali nazionali “emittenti”, in un accordo condiviso di superamento della moneta unica);
  2. il regime degli aiuti di Stato, eccessivamente restrittivo non meno che arbitrario e discriminatorio nei nostri confronti;
  3. la conseguente effettuazione delle politiche pubbliche di ricostituzione e salvataggio delle filiere industriali nazionali;
  4. l’uso di strumenti di rifornimento della liquidità a imprese, famiglie e enti locali territoriali, al fine di sanare la situazione dei crediti verso la pubblica amministrazione, in eterno e insostenibile sospeso nei pagamenti.

Dallo sbloccare questi aspetti, – come conseguenza del potere negoziale italiano, ampliato (diremmo: ritrovato) grazie alla preventiva messa in sicurezza della solvibilità dello Stato, mobilitando e tutelando la capacità dell’ancora notevole stock del risparmio nazionale -, dipenderà la sorte stessa dello “strumento” della moneta unica e del futuro assetto dell’auspicabile cooperazione economica e culturale in Europa. Quel che è certo, è che senza il percorso difensivo, da svolgere con decisione e tempestività, né il cambiamento della situazione socio-economica italiana, né il cambiamento delle regole europee che ci hanno portato in questo vicolo cieco, saranno possibili.

RINEGOZIARE E RIDURRE AL MINIMO IL PNRR, PER RENDERLO COMPATIBILE CON LA CRESCITA ITALIANA

In questo quadro è fondamentale, quantomeno, rinegoziare il PNRR per indirizzarlo verso politiche industriali ed economiche realmente utili per la nostra Nazione: meno transizione energetica e digitale, più infrastrutture e finanziamenti per la politica industriale. In particolare per la transizione energetica bisogna rendere centrale la manutenzione e l’efficientamento energetico del nostro patrimonio immobiliare pubblico e

privato, offrendo un’alternativa alla cancellazione del Superbonus 110% inopinatamente imposta dal Governo attuale. In più bisogna allungare i tempi previsti per mettere a bando i progetti, in modo da evitare caotiche accelerazioni che di per sé generano nuova inflazione, valutando anche una riduzione dei 122,6 miliardi di euro di prestiti previsti dal PNRR che dovranno essere restituiti non solo negli interessi ma anche per la sorte capitale.

Ma l’aspetto critico più importante e che conduce a una soluzione più radicale, in apparenza, sta nell’essere consapevoli che Il PNRR di Draghi e Meloni è un esempio di piano di investimenti da non seguire: ha un basso moltiplicatore (0,9; in realtà sarebbe, secondo la stessa UE, anche inferiore, cioè pari a 0,3; ed è quanto si rivelerà a consuntivo: una crescita irrilevante e disastrose restituzioni alla Commissione creditrice) e contiene una frammentazione estrema in tanti microprogetti, nessuno dei quali sistemico e che porterà ad una trasformazione del modo di vivere degli italiani. Servirebbe invece concentrare i 191 mld disponibili su pochi “progetti missione” che facciano da volano per il resto. Se ciò non sarà possibile, a causa della “interessata” resistenza delle istituzioni Ue, che non vorranno perdere questo intrusivo strumento di “condizionalità” e di indebitamento del nostro Paese, è più utile ed opportuno risolvere l’accordo stesso a base del PNRR, rinunciando alle future linee di credito sempre più onerose e funzionali ad una crescita comunque insufficiente per le restituzioni.

RIFIUTARE L’INCASTRO DELL’APPESANTIMENTO DELLE REGOLE EUROPEE

In termini di attualità bisogna, infine, affrontare l’“incastro” determinato nell’Unione Europea da diverse azioni convergenti: il nuovo Patto di stabilità e crescita, la riforma del MES, la governance rigorista BCE, la transizione ecologica, il tutto alla luce del posizionamento geo-politico della UE sulla guerra in Ucraina che ha rotto ogni positiva sinergia economica con la Russia (e dunque la possibilità di disporre d’energia a costi contenuti). C’è da sperare che il Governo attuale non voglia uscire da questa situazione con un compromesso al ribasso, perché la ratifica del MES per l’Italia significherebbe condannarsi ad andare in default.

Il Meccanismo Europeo di Stabilità prevede una serie di condizionalità che a un paese indebitato come l’Italia consentono solo di accedere a una “linea di credito a condizioni rafforzate”, che comporterebbe una preliminare ristrutturazione del debito e quindi il fallimento delle finanze pubbliche. Non solo: il MES, per meglio esercitare i propri compiti, procederà “d’ufficio” all’accertamento della sostenibilità del debito pubblico di concerto con la Commissione e la BCE. Quando da queste verifiche d’ufficio risulterà che l’Italia non è in condizione di accedere alle normali linee di credito dell’ESM, sui mercati si scatenerà il panico rispetto ai nostri titoli, poiché sarebbero le stesse autorità che dovrebbero “sostenerci” a certificare che siamo destinati ad una preventiva ristrutturazione del debito.

Anche nella riforma della governance del Patto di Stabilità non si intravede nessun tratto positivo che possa interessare l’Italia, perché la sbandierata flessibilità si trasforma in un cappio alla gola per un paese indebitato come il nostro, mentre non appare all’orizzonte nessuna volontà di rivedere le funzioni della BCE o le folli regole della

transizione Green. Per questo motivo riteniamo che l’Italia in questa fase non debba perseguire e accettare nessun compromesso: tutte le riforme messe in campo sono per noi negative e quindi conviene mantenere un atteggiamento rigido, in attesa che le nostre posizioni negoziali siano rafforzate dalle politiche sopradescritte. Ricordando quello che è successo a Silvio Berlusconi nel 2011, non ci si illuda che piegando il capo si ottenga un atteggiamento di maggiore benevolenza futura da parte delle istituzioni europee e degli Stati del Nord Europa.

Infine, ma non “ultimo”, la bozza del nuovo Trattato sull’Unione, appena adottata, abolisce la salvaguardia del voto all’unanimità, in materia finanziaria, energetica e della politica estera, e rende obbligatoria l’adozione della moneta unica per tutti i paesi membri: si va verso l’allargamento dell’Unione ad ulteriori paesi-membri (bisognosi di continua erogazione di fondi europei), con l’inevitabile aumento della contribuzione netta a carico italiano; e ciò proprio mentre la riforma della governance fiscale ci obbliga ad una nuova ed infinita stagione di austerità, e dunque di probabile recessione fiscalmente indotta, alternata, nella migliore delle ipotesi, ad una crescita prossima allo zero, in continua stagnazione (e conseguente aumento del rapporto debito/PIL).

LA NUOVA QUESTIONE MERIDIONALE: LO STATO GARANTE DI SICUREZZA E MOTORE DI UN NUOVO SVILUPPO.

Il Mezzogiorno rappresenta una criticità complessa ed in movimento: nata prevalentemente come questione agraria, si è trasformata in questione urbana. Le ricorrenti crisi economiche provocate dalle politiche liberiste hanno colpito maggiormente le regioni meridionali, interrompendo il faticoso cammino verso il riequilibrio economico inaugurato nel dopoguerra con la legge del 10 agosto 1950, istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno, e con la legge del 1957 sulle aree ed i nuclei di industrializzazione.

Lo svuotamento progressivo delle campagne ha determinato l’aumento della densità abitativa delle città che si sono allargate in periferie caratterizzate dall’assenza di servizi e da una pessima qualità della vita.

L’emarginazione di queste periferie, con la diminuzione della domanda di prodotti artigianali causata dall’estendersi sul territorio delle grandi catene commerciali, ha determinato nelle città l’insorgenza di un nuovo proletariato urbano che prova a risolvere le povertà cercando lavoro altrove, lontano dalle proprie terre, oppure nel miraggio di assunzione nell’amministrazione pubblica e, non per ultimo, nell’arruolamento nelle organizzazioni criminali delle quali diventa facile preda.

Lo Stato deve essere il motore – insieme a regioni ed enti locali – di un nuovo sviluppo nel Mezzogiorno, che non si limiti agli investimenti infrastrutturali e che vada oltre il fallimentare utilizzo dei fondi strutturali europei, ma crei forti poli industriali collegati a centri di ricerca sul territorio e ad una nuova banca d’investimento per le regioni meridionali. Il turismo, le attività culturali, la tutela del patrimonio artistico e ambientale, la valorizzazione di prodotti artigianali e agro-alimentari attualmente rappresentano al Sud gli unici settori in espansione occupazionale. Una politica di

attenzione fiscale (sgravi contributivi, riduzione dell’IVA, detassazione degli investimenti), oggi possibile grazie all’approvazione della ZES unica per il Mezzogiorno, se adeguatamente finanziata determinerebbe benefici non solo per questi settori ma diventerebbe un volano di sviluppo per tutto il Mezzogiorno. Ed è fondamentale che tutto questo accada proprio nel momento in cui sembra arrivare in porto l’autonomia differenziata per le Regioni del Nord.

Perché siano garantiti i risultati, tutte queste scelte devono necessariamente essere accompagnate da efficaci politiche in materia di sicurezza, in contrasto ad ogni infiltrazione del potere illegale: la speranza di sviluppo e crescita economica non può che essere abbinata ad adeguate politiche sulla sicurezza. Lo Stato deve dimostrare tutta la propria forza dichiarando guerra alle organizzazioni criminali che infestano il territorio estendendo solide ramificazioni anche nelle regioni del settentrione.

Necessitano investimenti importanti per vincere una guerra giusta contro la criminalità organizzata (sarebbero bastati quelli già utilizzati o quelli impegnati per le armi all’Ucraina) con l’impegno massiccio di uomini e risorse, e con l’istituzione, per niente simbolica, di Alti Commissariati Antimafia e Anticamorra nei capoluoghi delle regioni meridionali. Questo insieme alla scelta di collocare a Napoli le infrastrutture tecniche e amministrative che governeranno la nuova ZES unica per il Mezzogiorno.

DALLA PIENA OCCUPAZIONE AI DIRITTI DEI LAVORATORI

A quasi 10 anni dall’emanazione del Jobs Act è giunto il tempo di fare un primo bilancio degli effetti sui diritti dei lavoratori delle riforme del PD, che hanno oggettivamente indebolito il potere negoziale dei lavoratori e definitivamente istituzionalizzato il precariato. Il Jobs Act come il Pacchetto Treu sono stati presentati ai piccoli e medi imprenditori italiani come la soluzione di tutti i loro problemi aziendali, ma in realtà queste riforme sono state utilizzate principalmente dai grandi gruppi multinazionali, soprattutto nel campo dei servizi, per giungere ad un’intollerabile precarizzazione dei giovani lavoratori.

Per questo il naturale corollario di una politica di piena occupazione è il rilancio del potere negoziale dei lavoratori, contro ogni forma di precarizzazione, di repressione salariale e di “lavoro povero”. In questo quadro la proposta di introdurre un salario minimo acquisisce più che altro un valore simbolico, purché questo minimo sia costantemente adeguato all’indice d’inflazione, non sia sostitutivo della contrattazione sindacale e di devisive politiche di investimento pubblico nelle filiere produttive.

Inoltre non è più rinviabile l’attuazione dell’art. 39 della Costituzione sul riconoscimento della personalità giuridica dei sindacati e dell’art. 46 della Costituzione per la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, fermo restando che questa integra e non sostituisce i diritti sindacali.

VINCOLARE LE MULTINAZIONALI AL RISPETTO DEL LAVORO ITALIANO

Un discorso a parte va fatto per gli impianti produttivi dei grandi gruppi multinazionali che hanno più facilità a sfuggire alla conflittualità sociale delocalizzando all’estero la loro

attività. Per questo è necessario introdurre delle fidejussioni a carico di queste multinazionali per garantire i lavoratori da questi rischi di ristrutturazioni e cessazione dell’attività, soprattutto quando la proprietà si è avvalsa di finanziamenti pubblici per creare i propri insediamenti produttivi.

Bisogna inoltre prevedere per legge delle sanzioni di mercato, fino al boicottaggio dei prodotti, per le multinazionali che chiudono le loro produzioni in Italia. È chiaro che per realizzare questi interventi è necessario sfidare le normative europee e del WTO sull’apertura dei mercati.

Un caso esemplare di questi rischi è quello che stanno affrontando i lavoratori di Stellantis, la holding multinazionale con sede nei Paesi Bassi che ha assorbito l’eredità finanziaria e produttiva del Gruppo Fiat: è evidente l’intenzione di depotenziare e chiudere gli impianti delle marche automobilistiche italiane che sono stati sviluppati nelle nostre regioni meridionali con decenni di sussidi e investimenti pubblici. L’intervento del Governo e dello Stato italiano per difendere queste filiere produttive e questi posti di lavoro deve essere durissimo: non è tollerabile una simile rapina ai danni del made in Italy, del lavoro italiano e dei nostri investimenti pubblici.

UN LAVORO PER TUTTI: REDDITO DI CITTADINANZA PER CHI SVOLGE LAVORI DI PUBBLICA UTILITÀ.

L’obiettivo della piena occupazione va realizzato con le politiche economiche fin qui descritte, ma ha bisogno anche di “interventi tampone” che affrontino le tante emergenze sociali di chi non può lavorare o di chi non riesce realmente a trovare lavoro. Per questa ragione non condividiamo la riforma del Reddito attuata da questo Governo, che ha escluso e di conseguenza messo in difficoltà oltre 400 mila famiglie, senza neanche attendere la scadenza naturale del termine già concordata con il lavoratore. Un modo sbrigativo e probabilmente illegale di intervenire, che lede ulteriormente la fiducia che i cittadini devono riporre nello Stato. La soluzione pilatesca di cavarsela prevedendo al suo posto i soliti corsi di formazione, non concordati con le imprese e quindi svincolati dalla realtà, è nei fatti del tutto inutile. Il Reddito di Cittadinanza andava sicuramente modificato rispetto alla sua versione antecedente, ma in altri modi e con altre finalità.

Per il 2024, al termine quindi del vigente periodo transitorio, chiediamo che il nuovo Assegno di Inclusione sia esteso anche agli abili al lavoro con meno di 60 anni di età, che rientrino nei parametri ISEE (il discutibile e problematico Indicatore Situazione Economica Equivalente) attualmente in vigore. Un sussidio congruo e dignitoso, non una mancetta, che però preveda sempre l’obbligo svolgere Lavori di Pubblica Utilità. In questo modo potremmo consentire agli Enti Locali ed al Terzo Settore di intervenire, senza gravarli di costi che non potrebbero sostenere, sul riassetto del nostro territorio, sul degrado dei nostri quartieri, sulla prevenzione del dissesto idrogeologico e del rischio sismico.

Noi crediamo che solo una percentuale contenuta di disoccupati difetti della buona volontà di cercarsi un’occupazione, al contrario la maggioranza di loro si scontra con le oggettive difficoltà del nostro mercato del lavoro, almeno fino a quando le politiche

economiche nazionali non cambieranno radicalmente nel senso da noi auspicato. Nel frattempo queste energie non devono andare sprecate, ma il sussidio che si riceve, come atto di solidarietà dalla propria Comunità di appartenenza, deve essere ricambiato rendendosi utile per la Comunità stessa. E se molti imprenditori denunciano la difficoltà di reperire percettori del reddito di cittadinanza disposti ad occupazioni lavorative, la risposta deve essere quella di concedere direttamente un incentivo economico di tipo fiscale all’azienda che assume e di tipo retributivo al lavoratore assunto.

Diverso ragionamento va fatto per i disabili o per coloro che sono portatori di altre oggettive fragilità che rendono l’inserimento lavorativo di fatto estremamente difficile, specie considerando gli attuali modesti incentivi alle imprese che sono disposte ad assumere, incentivi che senz’altro devono essere potenziati. È necessario continuare ad offrire ai soggetti fragili delle dignitose e compatibili possibilità di lavoro, garantendo al contempo stabilmente il sussidio ed il sostegno dei servizi sociali.

Va inoltre rimarcato che i Centri per l’Impiego, pur potenziati negli organici in questi ultimi anni, restano inefficienti e per tante ragioni continuano a girare a vuoto. In primo luogo perché solo raramente hanno contatti stabili e di reciproca fiducia con il mondo delle imprese, che solo in una percentuale minima si rivolgono ai Centri per l’Impiego per le proprie ricerche di personale. La vera occasione per riformarli sarebbe stata il Programma GOL, un’azione di riforma prevista dal PNRR per riqualificare i servizi di politica attiva del lavoro, che prevede risorse pari a 4,4 miliardi di euro, con l’obiettivo di coinvolgere, entro il 2025, 3 milioni di beneficiari di cui 800.000 in attività formative. Ad oggi i corsi di formazione stentano a partire e per l’ennesima volta la mancata programmazione di un’azione coordinata con il sistema economico esterno sta impedendo un efficace incrocio tra le domande e le offerte di lavoro. Una grande opportunità, ad oggi sprecata, per riformare a fondo le nostre politiche del lavoro ed i Centri per l’Impiego.

MENO TASSE E ASSEGNI DI MATERNITÀ ALLE FAMIGLIE CON PIÙ FIGLI

La più grande emergenza italiana è il drammatico calo della natalità. Ogni progetto o programma sarà un futile esercizio verbale se il popolo italiano continuerà a percorrere il triste cammino dello spopolamento, preludio all’estinzione degli italiani come popolo. Per invertire la rotta occorre un clima culturale e civile favorevole all’accoglienza della vita. Basta con politiche malthusiane e con l’indifferenza al crollo demografico.

Il successo di un’energica battaglia culturale per la vita e la nascita di figli deve essere sostenuto da una altrettanto energica politica fiscale, sociale, lavorativa favorevole alla formazione della famiglia e all’accoglienza di figli. L’inversione dell’ “inverno demografico” deve diventare un’emergenza nazionale e una priorità politica. La difesa della famiglia e della natalità è una pura illusione senza uno specifico intervento fiscale e sociale, che si accompagni al sostegno all’occupazione, alla lotta al precariato e al diritto alla casa. Un fisco a dimensione familiare significa dare meno tasse a chi ha più figli: è il quoziente familiare applicato in Francia dai tempi di De Gaulle che deve essere finalmente applicato anche in Italia per sostenere le famiglie e la natalità. Questa è la vera riforma fiscale di cui ha bisogno l’Italia, non la flat tax finanziariamente insostenibile,

perché quella demografica rimane la principale sfida per non far scomparire il nostro popolo.

Per le famiglie incapienti queste detassazioni si devono trasformare in assegni di maternità proporzionali al numero di figli, tali da rappresentare un vero e proprio stipendio con contributi previdenziali per le donne che hanno scelto di dedicarsi integralmente ai loro figli. Insieme a questo è necessario un grande piano per gli asili nido e per una vera conciliazione dei tempi di vita e di lavoro a tutela della maternità e della paternità.

RICOSTRUIRE IL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE, RIFIUTANDO OGNI LOGICA DI PRIVATIZZAZIONE

L’emergenza pandemica ha dimostrato quanto il nostro Servizio Sanitario Nazionale si fosse indebolito per i continui tagli alla spesa sanitaria, specie con i 37 MLD di euro nel decennio 2012-2019 sotto i Governi tecnici e della sinistra PD. Nonostante ciò dall’Unione Europea e dal Ministero dell’economia si moltiplicano gli attacchi alla nostra spesa sanitaria con gli alibi della lotta agli “sprechi”.

Nel contempo dando il via alla crescita incontrollata della sanità privata convenzionata, a scapito del pubblico, nella illusoria speranza di una maggiore efficienza e finendo invece poi per generare talora parassitismo, vere e proprie truffe e ulteriori spese. Dobbiamo invece tornare a investire soprattutto sulla sanità territoriale e di base, sulle strutture sanitarie per cancellare la vergogna delle liste di attesa, sugli istituti di ricerca pubblici per non essere in balia delle multinazionali del farmaco nella definizione delle terapie, sulla formazione di medici e paramedici abolendo il “numero chiuso” nelle facoltà universitarie.

Va respinta l’assurda idea che il diritto alla salute possa essere garantito attraverso le assicurazioni private, che semmai devono essere garantite al personale medico per tutelarlo dalla pioggia di cause per gli eventuali danni ai pazienti. Secondo la Corte dei Conti dopo la pandemia i conti della sanità pubblica sono fuori controllo. Non per nuove assunzioni o ritocchi agli stipendi dei sanitari, rimasti spesso al palo, o per il rinnovo del parco attrezzature tecnologiche o per la ristrutturazione edilizia degli edifici e degli ospedali, ma perché le commesse pubbliche sono andate a professionisti a gettone assunti per emergenza con contratti faraonici e fantasiosi, a cooperative e società private che hanno raddoppiato il fatturato incrementando l’uso, sempre più privatistico, delle strutture pubbliche.

Il tutto punta dell’iceberg di un Sistema Sanitario Nazionale sempre più perso dietro logiche privatistiche, mentre si sta progressivamente trasformando quello che dovrebbe essere un diritto costituzionale in un privilegio di censo. Occorrerebbe invece un ambizioso Piano di Rilancio del SSN, una delle costruzioni legislative e sociali più importanti realizzata dalla Repubblica Italiana. La sanità pubblica trainerà anche l’occupazione, dovendo partire chiaramente dall’aumento del personale e di conseguenza salvaguardare la professione medica consentendo carriere più rapide per il personale sanitario ed una remunerazione adeguata al carico di lavoro ed alle responsabilità.

Modifica della riforma della legge Gelli-Bianco sulla responsabilità degli operatori sanitari: attualmente tale norma da un lato incentiva la fuga dei medici da alcune branche specialistiche e dall’altro costa troppo alle casse pubbliche con l’aumento vertiginoso dei contenziosi.

ABOLIRE LA LEGGE FORNERO PER RIAFFERMARE IL DIRITTO ALLA PENSIONE

C’è una truffa che si nasconde dietro il costante attacco alla spesa pensionistica italiana: la confusione tra spesa previdenziale e spesa assistenziale che deriva dalla messa in carico al bilancio dell’Inps degli interventi assistenziali sganciati dai contributi previdenziali versati da lavoratori e datori di lavoro. Questi intervanti assistenziali sono pensioni sociali, invalidità civili, integrazioni al trattamento minimo, prepensionamenti conseguenti a crisi aziendali e settoriali, cassa integrazione in deroga, spese per interventi assistenziali delegati dallo Stato e dalle Regioni all’Inps. In questo modo si sovrastima la spesa pensionistica al 16,5%, quando invece si attesta – al netto dell’assistenza sociale – all’11,9

% del Pil.

Risolvendo questo equivoco c’è spazio non solo per abolire definitivamente la Legge Fornero e stabilire età di pensionamento più sostenibili (pensiamo a quanto è successo in Francia per una riforma molto più tenue di quanto previsto in Italia), ma per garantire la pensione alle giovani generazioni e addirittura per ridurre il cuneo fiscale e contributivo.

Nessuno deve restare indietro: nessun pensionato deve prendere meno del salario minimo calcolato. L’adeguamento di tutte le pensioni deve essere completamente concesso, senza più limitazioni protratta da legislazione “a singhiozzo”, complessivamente elusive della loro evidente incostituzionalità.

DIRITTO ALLA CASA, EMERGENZA PERIFERIE E RIGENERAZIONE URBANA.

Un altro diritto costituzionalmente garantito che invece viene trascurato da troppi anni è quello alla casa. Si attende da decenni un vero piano nazionale per l’edilizia economica e popolare con un costante scarico di responsabilità tra regioni, comuni e Stato, mentre si moltiplicano i territori urbani abbandonati di proprietà pubblica – a cominciare da quelli delle caserme dismesse – che potrebbero facilmente essere messi a disposizione per un investimento del genere.

Con il rapporto “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2023” il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) ha fornito dati allarmanti sull’occupazione di superficie originariamente agricola, naturale o seminaturale. E secondo l’ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, “il fenomeno si riferisce a un incremento della copertura artificiale di terreno, legato alle dinamiche insediative. Un processo prevalentemente dovuto alla costruzione di nuovi edifici e infrastrutture, all’espansione delle città, alla densificazione o alla conversione di terreno entro un’area urbana, all’infrastrutturazione del territorio”.

In 15 regioni il suolo consumato stimato al 2022 supera il 5%, con valori percentuali più elevati in Lombardia (12,16%), Veneto (11,88%), e Campania (10,52%). A fronte del numero dei residenti italiani, calato di quasi 1,5 milioni di unità, il suolo urbanizzato è cresciuto di 32.000 ettari.

La contraddizione, più cemento meno case, si spiega con una sostanziale mancanza di strategia nelle politiche per la casa dei governi fin qui succedutisi, carenti del tutto nell’assegnare al problema casa il valore maturato autonomamente, nel corso dei decenni, dal popolo italiano: la proprietà della casa, come il lavoro, è giustamente inteso intimamente come garanzia di indipendenza e di libertà a protezione della famiglia. Motivo per il quale gli italiani hanno da sempre reputato la casa come primo vitale investimento che li ha resi il popolo con la maggiore proprietà privata abitativa, quella stessa che tanto è in odio e vuole essere messa sotto attacco dall’ Unione Europea.

La naturale conseguenza di questo “scollegamento valoriale” é stata l’incapacità anche delle istituzioni locali di riutilizzare fette di territorio sedi di aree industriali dismesse e concretamente ignorate da ogni progetto di bonifica e recupero. Interventi di edilizia sostitutiva e sostenibile sono possibili in tante di queste aree abbandonate e per edifici di proprietà pubblica, anche per decongestionare e alleggerire città ad alta densità demografica con la realizzazione di spazi sociali ad alta fruibilità.

Bisogna, in ogni caso, assegnare alla casa il valore che gli italiani le hanno spontaneamente assegnato istituendo il “mutuo sociale” per la prima casa, con un accordo di garanzia tra istituzioni pubbliche e sistema bancario diretto a finanziare mutui sostenibili e senza anticipi per le giovani coppie. Questo tipi di interventi sarebbero un grande volano per un settore come quello dell’edilizia che ha sempre avuto una funzione fondamentale per stimolare la crescita e il ciclo economico e che invece oggi è stato messo in ginocchio dall’attacco governativo contro il Superbonus 110%.

Milioni di italiani vivono nei quartieri periferici delle grandi e medie città. Una emergenza che la recente vicenda di Caivano ha posto alla attenzione nazionale. Si tratta di vere e proprie favelas dove il degrado urbanistico si accompagna a condizioni sociali spesso drammatiche e ad un degrado anche umano. È come se lo “scarto sociale” prodotto dall’attuale fase dell’economia capitalista venga confinato in questi ghetti. È necessario, allora, una grande iniziativa politica, anche attraverso lo strumento di leggi speciali, per intervenire ad alleviare le condizioni di vita di chi è confinato in queste realtà. Si tratta di interventi nel capo scolastico, sociale, economico, assistenziale, culturale. Interventi indispensabili per sottrarre ad una condizione subumana una parte sempre maggiore di nostri concittadini. La sola repressione delle devianze non può essere certo sufficiente se prima non si mette in campo una azione intelligente e tenace di prevenzione. Bisogna, peraltro, evidenziare che le periferie sono non soltanto una bomba sociale ma anche terreno privilegiato dove mafie e criminalità organizzata trovano con facilità nuova manovalanza.

NUOVA LEGGE SUL SOVRAINDEBITAMENTO E CARTA DELL’UTENTE BANCARIO.

La crisi economica e la diffusione della povertà ripropone il problema del sovraindebitamento che colpisce non solo i ceti popolari ma anche le famiglie del ceto medio e i lavoratori autonomi che non sono riusciti a reggere questa situazione.

In Italia sono 7 milioni le persone che si trovano in una situazione di sovraindebitamento e più di 1 famiglia su 4 (25,3%) è a rischio di povertà assoluta. La stima è quella fornita nell’aprile del 2023 nel “Rapporto nazionale sul sovraindebitamento”, stilato dall’Ufficio studi dell’Associazione “Liberi dal debito” e già presentato in Vaticano, in cui si sottolinea che Istat e Bankitalia hanno reso noto che il 50% delle famiglie italiane sono in difficoltà economica e che un’azienda su tre rischia di chiudere. Per questo è necessario rivedere le previsioni della legge 3/2012 che sono inadeguate e farraginose, tant’è che solo una percentuale molto ristretta delle persone sovra indebitate di fa effettivamente ricorso. A tutti i cittadini e a tutte le famiglie deve essere garantito che istituti di credito e agenzie di riscossione non li possano privare della base essenziale per il loro sostentamento, il diritto di avere almeno un conto corrente bancario e la possibilità di continuare un’attività lavorativa quando ci sono speranze concrete di uscire dalla situazione di difficoltà.

In Italia al momento non esiste una norma che regoli nel dettaglio i diritti dei correntisti, o delle persone che richiedono un prestito a una banca o ancora di chi detiene una cassetta di sicurezza, soprattutto che eviti il rischio di improvvise e non motivate chiusure dei conti correnti e revoca degli affidamenti o altre limitazioni imposte dalla Centrale rischi. Situazione particolarmente odiosa se si pensa agli extraprofitti bancari, su cui il Governo Meloni ha cercato maldestramente di intervenire. Invece va emanata per legge una “Carta dell’utente bancario” che difenda i cittadini dalle derive imposte dall’Unione bancaria, dal bail-in e dagli algoritmi che stanno sostituendo qualsiasi valutazione flessibile nel settore creditizio.

SECONDO – L’ITALIA PROTAGONISTA NEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE

A livello globale guerre e conflitti economici stanno segnando l’emersione di un nuovo mondo dopo l’epoca dell’unipolarismo americano, cominciata nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino ed entrata in crisi irreversibile con l’intervento russo in Siria, la fuga dall’Afghanistan e la crescita economica e politica dei BRICS PLUS.

L’alternativa dei prossimi anni, quella che darà il segno della nuova epoca che si sta aprendo, sarà tra il progetto di un vero mondo multipolare in cui possano riprendere valore le identità e le sovranità dei popoli, oppure la minaccia di un nuovo conflitto Usa-Cina, che renderà ancora più oppressive le logiche del mercato globale attraverso nuove forme di totalitarismo. Questo nuovo conflitto potrebbe essere molto più devastante di quello novecentesco tra USA e URSS: se allora si contrapponevano consumismo e gulag, oggi la posta in palio sono le gestioni totalitarie delle pandemie, dell’intelligenza artificiale e delle biotecnologie transumaniste.

Di fronte a tutto questo non ha nessun senso cercare di blindarsi in un Occidente in declino, come stanno facendo il Governo Meloni e l’opposizione PD. Senza abbandonare la nostra collocazione in Europa, l’Italia deve recuperare la propria indipendenza geo- politica muovendosi per costruire ponti di pace e di cooperazione con le altre aree del mondo, come è nella nostra tradizione e motivo per cui siamo apprezzati in tutto il mondo. Un’immagine positiva che è anche fondamentale per il nostro commercio estero. La nostra priorità deve essere l’interesse nazionale e quindi la nostra proiezione nel Mediterraneo, in Europa e verso Est, soprattutto verso la Russia, soggetto a noi storicamente complementare.

LA NATO NON PUÒ ESSERE IL POLIZIOTTO DEL MONDO

Disimpegnarsi subito da ogni missione dell’Alleanza atlantica fuori dai limiti di un’alleanza puramente difensiva, come sancito nell’art. 5 del Trattato istitutivo della NATO, ritirare tutti contingenti militari italiani che non abbiano una funzione di reale e esclusiva tutela della pace, sancita dall’ONU.

L’art. 1 del Trattato NATO, infatti, impegna gli Stati membri a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale al fine di non mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. L’uso della forza ai sensi dell’art. 5 è ammesso solo in caso di un attacco armato contro uno o più stati dell’Alleanza: lo scopo del trattato quindi è quello di tutelare gli Stati membri da eventuali minacce o aggressioni.

Tuttavia l’adozione del nuovo concetto strategico della Nato con la trasformazione da alleanza difensiva in organizzazione per la sicurezza collettiva, adottato a Washington dal Consiglio Atlantico nel 1999 e riaffermato nel summit di Lisbona nel 2010, ha modificato la tradizionale visione in base alla quale l’uso della forza era ammesso solo ed esclusivamente in presenza di un attacco armato ai danni di uno Stato membro dell’Alleanza. La Nato si è trasformata in una organizzazione anche offensiva attraverso le “missioni non art. 5” (peace keeping, peace support operation) che però dovrebbero sempre essere decise nel rispetto delle norme di diritto internazionale.

Sul punto ci sono alcune considerazioni da fare sotto il profilo giuridico: estendere il campo d’azione delle missioni, modificando il profilo dell’alleanza rispetto al Trattato del 1949, solo attraverso decisioni del potere esecutivo degli Stati membri, senza alcuna ratifica dei rispettivi Parlamenti, appare una procedura inaccettabile. Giova precisare che nel caso di “missioni non art. 5” gli stati membri non hanno alcun obbligo di partecipazione e l’Italia può e deve abbandonare tali missioni se queste non sono missioni di pace sotto controllo ONU, in linea con il principio costituzionale del ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali.

In tal senso il nostro impegno nazionale deve essere finalizzato a prevenire e raffreddare qualsiasi focolaio di guerra a livello internazionale, adoperandosi sul piano diplomatico nonché attraverso mirate iniziative all’interno dei vari organismi internazionali in cui l’Italia è presente, per promuovere iniziative di pace e proposte di risoluzione delle controversie che sono all’origine dei conflitti, intervenendo sempre a sostegno delle popolazioni civili che sono le reali vittime di ogni guerra.

FERMARE I MASSACRI IN MEDIO ORIENTE: IMMEDIATO CESSATE IL FUOCO A GAZA E CONVOCAZIONE DI UNA CONFERENZA INTERNAZIONALE DI PACE.

La sfida più urgente sul piano internazionale è quella di mobilitarsi per un immediato cessate il fuoco a Gaza e in Cisgiordania e per la convocazione di una Conferenza internazionale di pace.

Questa Conferenza deve essere finalizzata a costruire un quadro complessivo di sicurezza per tutte le popolazioni dell’area e ottenere una reale sovranità dei Palestinesi che garantisca la loro autodeterminazione, combattendo il terrorismo e ogni forma di fondamentalismo.

La soluzione, sancita dalle risoluzioni dell’ONU, di due Popoli e due Stati, deve misurarsi con le mutate condizioni locali, regionali e internazionali e del manifesto fallimento degli Accordi del 1993, non per cancellare l’idea di una coesistenza pacifica tra Israeliani e Palestinesi basata sull’autodeterminazione, ma per trovare nuovi modi per proiettare questa speranza in un nuovo e più credibile progetto.

Va inoltre sottolineato che, oltre alle prioritarie questioni umanitarie e di pace nel Mediterraneo, c’è anche un immediato e grave pericolo per il nostro interesse nazionale che deve spingere l’Italia a impegnarsi a fondo per fermare questo conflitto: due milioni di palestinesi in fuga dalla Striscia di Gaza possono diventare altrettanti rifugiati politici che hanno tutto il diritto di chiedere asilo nel nostro Paese. I pesanti flussi migratori che abbiamo subito nel 2023 sono nulla rispetto a questo drammatico esodo che, a differenza dei migranti economici, ci porta persone che hanno tutto il diritto a sbarcare sulle nostre coste. Come il Governo Meloni possa sottovalutare questa prospettiva, proprio mentre dice di voler contenere questo fenomeno, non è francamente comprensibile.

FERMARE LA GUERRA IN EUROPA: STOP ALL’INVIO DI ARMI IN UCRAINA

Dopo quasi due anni di guerra sono crollate le illusioni lanciate dall’Amministrazione Biden di poter chiudere il conflitto in Ucraina con l’umiliazione della Russia di Putin. Continuare a insistere in questa direzione significa aggravare ulteriormente il drammatico bilancio umanitario e il pesante costo economico per la nostra economia (calcolato tra i 150 e i 180 miliardi di euro dall’inizio del conflitto).

Cogliendo anche le aperture fatte dal Presidente Putin all’ultima riunione del G20, l’Italia e i principali paesi europei devono lanciare un piano di pace in Ucraina che preveda un immediato cessate il fuoco in cambio di un’altrettanto immediata sospensione dell’invio di armi a Kiev.

Questo cessate il fuoco deve essere propedeutico all’apertura di un tavolo di trattative che abbiano come base il diritto dei popoli all’autodeterminazione nelle Repubbliche di Doneck, Luhansk, Cherson e Zaporižžja.

BASTA AUTO-SANZIONI CHE COLPISCONO IL NOSTRO INTERESSE NAZIONALE

L’Italia deve rifiutarsi di aderire a qualsiasi programma di sanzioni economiche, non autorizzate da specifiche risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle NU.

Questo è ancora più vero nel caso delle crescenti sanzioni che da nove anni stiamo cercando di applicare alla Russia, che determinano più danni alla nostra economia nazionale di quelli che producono alla nazione che vorremmo colpire.

Nel caso della guerra in Ucraina è fin troppo evidente che l’effetto delle sanzioni è stato asimmetrico in Occidente: ha penalizzato gravemente l’economia delle nazioni europee, mentre ha avvantaggiato enormemente quella degli Stati Uniti a nostro danno.

SVILUPPARE IL RAPPORTO CON I BRICS COME PORTA D’ACCESSO AL MONDO MULTIPOLARE

Dal primo gennaio 2024, sei Paesi, cioè Iran, Arabia Saudita, Egitto, Argentina, Emirati Arabi ed Etiopia, si uniranno al gruppo dei BRICS, vale a dire Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Sarà il segnale più importante di un nuovo mondo multipolare che mette definitivamente in crisi l’egemonia degli Stati Uniti.

L’Italia, per posizionarsi in un mondo multipolare, deve rilanciare il proprio rapporto con i paesi BRICS Plus, sviluppando progetti di cooperazione economica, finanziaria e culturale, nel quadro di un positivo e rispettoso rapporto tra Occidente e Oriente, e cercando di coinvolgere le altre Nazioni europee in questi progetti con il “Sud globale” che è uno spazio abitato da 6.4 miliardi di persone e che rappresenta un grande mercato potenziale per il nostro paese.

Per fare questo bisogna mettere da parte ogni retorica sulla “superiorità della civiltà occidentale” e sul “pericolo delle autocrazie” – vedi la lettera di Giorgia Meloni al Corriere della Sera del 25 luglio 2023 – e sforzarsi di comprendere che il mondo multipolare esprime una molteplicità di modelli culturali e politici che ogni popolo ha diritto di scegliere liberamente, senza che nessuno si permetta di assumere atteggiamenti di superiorità dal sapore razzista. E l’Europa, che le differenze nazionali al proprio interno le conosce bene, potrebbe trovare un enorme spazio in questo contesto.

COSTRUIRE UN NUOVO MODELLO D’EUROPA.

Ferma la priorità assoluta della sovranità nazionale, l’Italia si deve impegnare a promuovere tra le Nazioni europee una cooperazione geopolitica ed economica in grado di svolgere un ruolo autonomo rispetto agli Stati Uniti, aprendo canali di dialogo con le altre aree del Pianeta, nel segno dell’autodeterminazione dei popoli.

Proprio questa potrebbe essere la base politica per costruire una nuova Europa dei Popoli e delle Nazioni, secondo un modello confederale opposto alle strutture burocratiche e ordoliberiste dell’Unione europea. In questo quadro è necessario proporre, come alternativa militare alla Nato, il coordinamento degli eserciti europei in chiave esclusivamente difensiva e conforme all’art. 11 della nostra Costituzione.

NON CANCELLARE LA VIA DELLA SETA COME OPPORTUNITÀ PER L’ECONOMIA ITALIANA

Il Governo italiano invece di cancellare – come sembra voler incomprensibilmente fare – dovrebbe rilanciare il memorandum con la Cina sulla Via della Seta (Belt and Road Iniziative), un grande accordo internazionale sulle infrastrutture a cui l’Italia ha aderito nel 2019 e che presenta indubbi vantaggi per il nostro interesse nazionale se correttamente implementato, per ridare all’Italia la centralità che ha da secoli al centro del Mediterraneo e come ponte tra Europa, Asia e Africa.

Di particolare importanza in questo progetto la cooperazione economica in Africa, strumentale anche a mitigare il fenomeno migratorio incontrollato che danneggia sia noi che ancor di più i paesi d’origine, e la valorizzazione dei porti e della logistica italiana, senza nessuna disponibilità a cedere la nostra sovranità su queste infrastrutture strategiche.

Se un’azione di contenimento deve essere sviluppata rispetto all’espansionismo economico cinese, questa deve essere rivolta a preservare le nostre filiere produttive da ogni forma di acquisizione o delocalizzazione, non a cancellare progetti di partenariato che portano vantaggi a entrambe le parti o investimenti di tipo greenfield (creazione ex novo di attività produttive) che non mettono a rischio la nostra sovranità economica

TERZO – L’ITALIA AL CENTRO DEL MEDITERRANEO PER FRENARE I FLUSSI MIGRATORI E COOPERARE CON L’AFRICA

L’impegno per la pace in Palestina è solo la premessa per il recupero di un ruolo indipendente e credibile al centro del Mediterraneo. La strada di questo recupero è lunga e difficile, dopo il clamoroso errore di cedere alle pressioni americane e francesi che – con la complicità dell’allora Presidente Napolitano – ci hanno portato a partecipare alla guerra contro la Libia di Gheddafi, tradendo quello che era diventato un nostro alleato politico e aprendo la strada ai flussi migratori conseguenti alla totale destabilizzazione di quel paese e al collasso della cintura del Sahel.

Il primo passo è quello di non essere più i fedeli esecutori delle direttive atlantiche, perché questo ci priva di ogni credibilità come interlocutori dei paesi arabi, mediorientali e africani. Come secondo passo bisogna liberarsi da ogni tendenza islamofobica e da ogni tentazione di immaginare “conflitti di civiltà”, non cedendo alla tentazione di confondere il terrorismo con il mondo islamico. Cultura cristiana, cultura islamica e cultura ebraica devono poter convivere in un Mediterraneo di pace come hanno fatto per secoli. Infine bisogna elaborare dei progetti di cooperazione allo sviluppo privi di ogni tendenza predatoria e antagonisti allo sfruttamento di quelle multinazionali che vivono dei vecchi retaggi del colonialismo.

Solo attraverso questo percorso una strategia italiana per frenare i flussi migratori diventerà credibile ed efficace, senza continuare ad illudersi su interventi europei di contrasto e di redistribuzione che probabilmente non arriveranno mai.

RILANCIARE LA COOPERAZIONE CON IL MONDO ARABO E ISLAMICO

Partendo da un impegno concreto per la pace in Palestina, l’Italia deve rafforzare e moltiplicare tutti gli strumenti di partenariato politico, culturale, economico e sociale con il mondo arabo e islamico in generale.

Impegnarsi a fondo nella lotta contro il terrorismo ed ogni fondamentalismo; lavorare per far uscire dall’isolamento i paesi islamici messi all’indice dagli Stati Uniti, raccordandosi con essi nella lotta contro il terrorismo così come è avvenuto durante la guerra all’Isis.

Le nostre università e i nostri enti di formazione devono riprendere a collaborare con quelli del mondo islamico, mentre bisogna impegnarsi culturalmente sul dialogo interreligioso e sviluppare la cooperazione economica con questi paesi.

PROMUOVERE UN “PIANO DI RESTITUZIONE ALL’AFRICA”

Dobbiamo avere il coraggio di lanciare un “Piano di restituzione all’Africa” di quanto è stato depredato nel corso dei secoli dal colonialismo europeo – principalmente anglosassone e francese – e oggi dallo sfruttamento delle multinazionali.

Riprendere la battaglia diplomatica e finanziaria per l’azzeramento del debito dei paesi più poveri e per la cancellazione delle concessioni predatorie sulle materie prime africane. Un vero “Piano Mattei” per lo sviluppo dell’Africa – non basato solo sulle grandi aziende come ENI ma sulla nostra rete di medie imprese, capaci di connettersi meglio alle realtà locali – diventa un progetto originale e credibile, solo se viene accompagnato con uno netto schieramento politico ed economico a fianco delle nazioni di quel Continente.

La nostra cooperazione allo sviluppo deve essere concentrata nell’Africa e nel Medioriente, mentre le nostre imprese devono essere coinvolte e sostenute negli investimenti e negli appalti per lo sviluppo delle Nazioni africane. Devono essere creati enti, banche e imprese basate sul partenariato economico e progettuale tra Italia e paesi africani. In tutto ciò è fondamentale non perdere le opportunità offerte dalla Belt and Road Iniziative, dove le autorità cinesi si impegnano a coinvolgere l’economia italiana nei loro progetti di sviluppo sempre più egemoni in Africa.

NON DEVONO PARTIRE: FRENARE I FLUSSI MIGRATORI

Tutto quando illustrato nei punti precedenti non è credibile se non viene accompagnato da una forte opera di freno contro l’immigrazione clandestina che arriva dal Mediterraneo. È esattamente il contrario di quello che pensano i progressisti nostrani: per cooperare con i popoli africani e arabi non si deve essere tolleranti nei confronti dei flussi migratori clandestini. Primo perché i migranti economici rappresentano una sconfitta anche per gli Stati dei paesi d’origine, secondo perché sono un’emorragia di energie per quelle

economie e quei territori, terzo perché la tratta degli esseri umani viene gestita da organizzazioni criminali che quasi sempre costituiscono un contropotere rispetto alla sovranità di quegli Stati.

Non è un caso che la XII Assemblea dei vescovi dell’Africa centrale nel luglio del 2022 abbia insistito sull’importanza di “contrastare le derive morali legate alla modernità e non cedere alla tentazione di gettarsi nell’avventura migratoria”. Basta solo questa dichiarazione per spazzare via tutta la retorica immigrazionista di chi vuole presentare i flussi migratori non come un dramma ma come un fenomeno positivo dal punto di vista economico, sociale e morale.

Questo freno dell’immigrazione clandestina non può basarsi sull’illusione della chiusura dei porti e sui blocchi navali in mare aperto, illusione su cui si è infranta una delle principali promesse elettorali del centrodestra. Dopo che i migranti sono partiti, è umanamente impossibile non soccorrerli quando naufragano in mare aperto o quando arrivano davanti ai nostri porti. I “respingimenti” sono ipotizzabili solo in specchi di mare ristretti come quelli che separano la Spagna dal Nord-Africa. Né l’accordo del Governo italiano con l’Albania per creare centri per migranti per 3mila persone appare in alcun modo risolutivo, sia per l’esiguità dei numeri delle persone che potranno essere accolte, sia per il negativo rapporto costi-benefici, sia per l’impossibilità di rimpatriare migranti che molto spesso non hanno documenti e non vogliono dichiarare la propria nazionalità e il luogo da cui si sono imbarcati.

L’unica strada per bloccare i flussi migratori – e di conseguenza l’emulazione che moltiplica questi flussi quando si diffonde la notizia di vie aperte e praticabili – è quella di fermarli all’origine evitando che i migranti economici (che sono la stragrande maggioranza dei clandestini almeno fino all’esplosione della situazione in Palestina) s’imbarchino nel Mediterraneo. Per fare questo, oltre la cooperazione allo sviluppo per creare lavoro nei paesi d’origine, è necessaria una grande mobilitazione militare, di intelligence e di organizzazioni di volontariato per disarticolare le filiere criminali che organizzano la “tratta degli esseri umani” e organizzare campi di accoglienza e hotspot nei paesi d’imbarco.

È evidente che questa opera sarà molto facilitata da accordi politici ed economici con gli Stati del Nord-Africa e dall’impegno di tutta l’Unione europea, ma deve essere altrettanto chiaro che l’Italia può e vuole agire anche unilateralmente in questo senso. Per bloccare questo dramma epocale dobbiamo chiedere aiuto a tutti, ma non attendere il permesso di nessuno: le nostre Forze armate sono perfettamente in grado di distruggere i barconi degli scafisti prima che vengano utilizzati, arrestare anche all’estero i trafficanti di uomini e riportare nel porto di partenza le navi appena salpate.

QUARTO – LA RIGENERAZIONE DELLO STATO, LA PARTECIPAZIONE E LE RIFORME ISTITUZIONALI

In tutte le analisi fin qui svolte si è resa evidente la necessità di una rigenerazione del ruolo dello Stato come garante dei cittadini e della democrazia contro lo strapotere dei gruppi capitalistici. Questo confligge con la vulgata dominante in questi decenni – dopo la

fine della prima Repubblica – secondo cui lo Stato, e i politici che lo guidano, sono fonte di corruzione, di sprechi, di burocrazia e di tasse. Questa narrazione è servita proprio ai gruppi economici dominanti per delegittimare e eliminare ogni forma di intervento pubblico e di controllo democratico. D’altra parte lo Stato italiano è stato da tempo occupato e smembrato dai poteri internazionali che lo hanno in larga parte trasformato in uno strumento per la loro colonizzazione dell’Italia.

Per cui il cittadino si trova spesso nella situazione schizofrenica di maledire lo Stato per poi, subito dopo, invocare il suo intervento, quando insorgono problemi di sicurezza, di crisi economica o di disordine sociale.

La risposta a queste contraddizioni è quella di garantire il ritorno dello Stato, ma con una profonda rigenerazione operata attraverso il principio della partecipazione democratica e sociale. Sono necessarie profonde riforme istituzionali e organizzative che permettano all’interesse generale e al bene comune di realizzarsi non solo con rinnovate strutture pubbliche ma con una responsabilizzazione delle formazioni sociali, dei corpi intermedi e delle autonomie locali. L’asse portante di questa rigenerazione non può non essere un rilancio della nostra democrazia che sia in grado di dare una risposta alle istanze populistiche che rivendicano, in modo spesso semplicistico, la sovranità popolare.

A tal proposito va sottolineato che opera propedeutica di questa rigenerazione è una profonda bonifica degli apparati nazionali, gli establishment che, per generazioni, hanno dimostrato assai maggiore fedeltà ai soggetti cui è legata l’Italia (NATO e UE su tutti) che agli interessi nazionali; senza di ciò, assai difficilmente sarà possibile una ripresa di credibilità dello Stato, meno che mai una riconquista della sovranità nazionale.

Solo in questo modo si può riuscire a riconciliare il cittadino con le istituzioni e fare della Repubblica italiana una vera espressione della sovranità nazionale e popolare.

UN PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ELETTO DAL POPOLO COME CUSTODE DELL’INDIPENDENZA ITALIANA E DELL’UNITÀ NAZIONALE

L’antico sogno della destra italiana di una riforma presidenzialista per far eleggere dal popolo il Capo dello Stato è stato abbandonato dal Governo Meloni per approdare, alla stregua di Matteo Renzi, a una confusa riforma sul premierato. Questa riforma servirà solo a comprimere ancora di più le funzioni del Parlamento e del potere legislativo, mentre il Custode della Costituzione e della Sovranità continuerà ad essere eletto dai partiti con il condizionamento determinante e inquinante delle lobby di potere. Basta constatare la funzione negativa sulla democrazia italiana fin qui svolta da quasi tutti i Presidenti della Repubblica per rendersene conto.

Per questi motivi respingiamo l’idea – diffusa dall’attuale Governo – che il premierato sia un succedaneo adeguato del presidenzialismo e siamo pronti a presentare una nostra proposta di legge per il Presidente della Repubblica eletto dal Popolo e ad usare l’arma referendaria per cancellare la Riforma costituzionale della Meloni così come è stata cancellata quella di Renzi.

L’avvento del Presidenzialismo è fondamentale anche per garantire l’unità nazionale a fronte dei progetti di autonomia differenziata e della necessità di superare il divario che ancora oggi cresce tra il Nord e il Sud dell’Italia. Un Presidente della Repubblica eletto dal popolo, custode della sovranità nazionale e in grado di risolvere i conflitti che insorgono tra i diversi apparati istituzionali, può garantire una vera autonomia basata sui principi di sussidiarietà, solidarietà e identità dei territori.

UN REFERENDUM POPOLARE SU OGNI TRATTATO CHE CEDE SOVRANITÀ NAZIONALE

È necessario fissare un paletto che limiti la possibilità di ulteriori cessioni di sovranità nazionale attraverso la sottoscrizione di Trattati internazionali: questo potrà avvenire solo attraverso lo svolgimento di un referendum popolare riprendendo in parte la procedura fissata dall’art 138 della Costituzione per le modifiche della Carta.

Si tratta di un messaggio chiaro ed un “minimum sindacale” per riaffermare, da un lato, che la sovranità nazionale non è un quid insignificante che possa essere ceduta senza una specifica riflessione ed un ampio consenso dei cittadini e, da altro lato, che nessuna cessione di sovranità possa ritenersi definitiva e irretrattabile, perché dovrà affermarsi che anche tutte le cessioni di sovranità già concesse in passato possano essere nuovamente sottoposte a Referendum.

SICUREZZA E LEGITTIMA DIFESA SONO I PRIMI DIRITTI DEI CITTADINI

La sicurezza e l’ordine pubblico non sono valori reazionari e autoritari, sono i primi diritti del cittadino, costituiscono il patto fondante di ogni entità statale. Senza sicurezza tutti gli altri diritti civili e sociali vengono meno: quando le persone, soprattutto le più fragili e indifese, hanno paura di girare per strada e non si sentono protetti neppure a casa propria, nessuna forma di libertà e di partecipazione può essere garantita.

Questo soprattutto quando, per effetto anche dei flussi migratori clandestini, troppi disperati marciscono nelle nostre città e la criminalità organizzata controlla intere aree del nostro territorio letteralmente abbandonate dallo stato. Per questo bisogna garantire un adeguato finanziamento alle Forze dell’Ordine, con l’aumento degli organici per realizzare un’efficace e seria attività di prevenzione e di contrasto alla criminalità. L’attività giurisdizionale, infatti, è una funzione estremamente delicata e vitale per lo sviluppo ed il benessere di un paese democratico. Le sue disfunzioni generano instabilità e diffusa preoccupazione con gravi ricadute sul piano economico e politico con conseguenze nefaste sul tessuto sociale e produttivo. Bisogna quindi investire nella formazione dei controllori amministrativi e nella loro operatività sul territorio, evitando però di compromettere ulteriormente la privacy dei cittadini con controlli invasivi, condotti con criteri poco trasparenti e disparitari.

In questo quadro non si può non garantire, con norme più chiare delle attuali, il diritto alla legittima difesa soprattutto in casa propria e sul proprio luogo di lavoro.


Tra il criminale che aggredisce e il cittadino che si difende, lo Stato e la Giustizia non possono non stare dalla parte del cittadino.

UNA GIUSTIZIA GIUSTA PER UNO STATO FORTE

Lo stato della Giustizia in Italia è certamente preoccupante. Lungaggini, inefficienze, correntismo esasperato, protagonismi inopportuni, interferenze nei confronti delle sfere riservate agli altri poteri.

Tale condizione è spesso mascherata dal non sempre genuino dibattito tra garantisti e giustizialisti, tra pretesi difensori dell’autonomia della Magistratura e fautori della separazione delle carriere. Nel frattempo, i problemi si incancreniscono. Una riforma complessiva della Giustizia, in particolare penale, è certamente indispensabile; una riforma che dopo decenni di interventi frammentari e disorganici abbia come obiettivi principali da un lato una maggiore celerità e dall’altro la garanzia dei diritti dei cittadini.

La questione delle correnti che condizionano ogni decisione del CSM può meglio trovare soluzione nella limitazione della discrezionalità auto-attribuitasi da tale organo, seguendo “mode” di valutazione aziendalistiche (sulla scorta della pressione neo-liberista dell’Ue), che nascondono equilibri non trasparenti e lotte politicizzate intestine. Le nomine negli uffici di vertice, devono seguire il ruolo di anzianità, semmai disponendo avanzamenti alle qualifiche superiori mediante prove per esami col sistema del concorso per merito comparato nonché, eventualmente, fissando, per i vari tipi di funzioni dirigenziali, dei requisiti minimi, oggettivamente riscontrabili, di esperienza specifica maturata (a sua volta non discrezionalmente valutabile).

Servono comunque strumenti legislativi e di indagine che rendano maggiormente efficiente la lotta alle mafie ed alla criminalità organizzata, in particolare, economica ma anche norme più efficaci per combattere la criminalità cosiddetta minore. Fenomeno, quest’ultimo che non deve essere sottovalutato in quanto aumenta il senso di insicurezza dei cittadini e la sensazione di impunità di chi delinque.

Il corretto funzionamento della giustizia potrà avvenire solo se si assicurerà agli uffici giudiziari personale preparato e numericamente adeguato (sia magistrati che personale amministrativo), procedendo anche ad una revisione delle norme penali, operata individuando i comportamenti che debbano essere perseguiti a livello penale e quelli che possono essere definiti in via amministrativa.

LA CREDIBITÀ DELLE ISTITUZIONI COMINCIA DALL’ABOLIZIONE DEL SEGRETO DI STATO

È inquietante che ancora oggi non si riescano a diradare le nebbie che circondano i momenti più drammatici della nostra storia repubblicana, come le stragi, la strategia della tensione e la trattativa Stato-mafia. Il che ci dimostra come dietro quei crimini estremi si nascondano poteri che ancora oggi sono in grado di condizionare la nostra vita repubblicana e che incarnano la sudditanza della nostra Nazione.

Per cui una ripresa di credibilità delle nostre istituzioni e ogni percorso di riconquista della sovranità nazionale non possono non passare dall’abolizione di ogni segreto di Stato sui fatti avvenuti il secolo scorso e una grande opera di disvelamento di queste verità costitutive della nostra storia contemporanea.

LA PARTECIPAZIONE DEI CORPI INTERMEDI PER RICOSTRUIRE LA COESIONE SOCIALE

La deriva verticistica dei partiti politici e la spinta ideologica del liberismo hanno prodotto una diffusa disintermediazione della società italiana, finalizzata a un rapporto “diretto” (ma in realtà ancora più subalterno) tra individui e istituzioni pubbliche e all’abbattimento di ogni protezione sociale di fronte alle logiche di mercato.

Questo è stato possibile anche per la crisi dei corpi intermedi nel nostro Paese: ordini professionali, fondazioni e casse di previdenza, rappresentanze sindacali e di categoria, mondo delle associazioni, camere di commercio e università, istituti partecipativi di settore, si sono sempre più chiusi in rappresentanze lobbistiche di interessi forti. Bisogna rigenerare queste rappresentanze, imponendo sistemi democratici più trasparenti e aperti di quelli oggi esistenti, ristabilendo un preciso rapporto tra diritti e doveri di questa “società intermedia”, delegando, in modo attento e controllato, poteri pubblici a queste autonomie funzionali e sociali. Seguendo questa strada si possono costruire alleanze con tutti quelle associazioni di categoria che ancora credono nella rappresentanza e vivono con frustrazione le prepotenze dei partiti dominanti e del mercato globalizzato.

CHI MI RAPPRESENTA LO SCELGO IO: RIFORMA DELLA LEGGE ELETTORALE E RIGENERAZIONE DEI PARTITI POLITICI

Dobbiamo ridare agli elettori il diritto di scegliere i parlamentari. L’inadeguatezza della classe dirigente politica deriva da partiti personali, dove non esiste né partecipazione né meritocrazia ma soltanto sudditanza al leader e “cerchi magici”. A ciò contribuisce in modo determinate l’attuale modello elettorale che – senza preferenze e senza collegi territoriali che mettano realmente alla prova le persone – si presenta così oligarchico e sradicato dal territorio da essere privo di vera legittimità democratica e costituzionale. Per questo sono necessarie riforme elettorali e un più saldo rinascimento giuridico dei partiti politici che permetta di vigilare veramente sulla loro democrazia interna.

QUINTO  –   CONTRO  IL   TRANSUMANESIMO  DIFENDERE LE VERE LIBERTÀ DELLA PERSONA UMANA

La nostra sudditanza ai poteri economici internazionali finisce per compromettere anche le libertà individuali e la dignità dell’essere umano: è in atto un vero e proprio attacco “transumanista” alla nostra condizione umana, l’evoluzione dell’eugenetica nell’era delle nuove tecnologie.

Le multinazionali del farmaco, Big Pharma, stanno costruendo la dittatura sanitaria, cominciata con le campagne vaccinali per il Covid e oggi proiettata a conferire ad una OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) privatizzata il controllo della sanità mondiale e della salute di ognuno di noi e delle nostre famiglie.

Le multinazionali biotech diffondono l’ideologia gender per aprire la strada alle peggiori sperimentazioni biotecnologiche che manipolano il concepimento di un figlio, la dignità della vita umana, l’alimentazione naturale e la biodiversità.

Big Tech, i giganti della tecnologia dell’informazione, ci impongono la transizione digitale, che vuole consegnare all’intelligenza artificiale il controllo delle nostre possibilità di conoscenza e percezione del reale.

La Green economy rende obbligatorie le tecnologie delle energie rinnovabili, le batterie e i pannelli fotovoltaici fatti con terre rare estratte con il lavoro minorile, la limitazione dei nostri spostamenti, la rottamazione delle nostre abitazioni e delle nostre autovetture. Ci illudono di contrastare il cambiamento climatico con la transizione green, invece che con la cura del territorio e dell’ambiente, la limitazione del consumismo “usa e getta” e una diversa qualità della vita.

Ma da dove vengono le strategie di queste multinazionali se non dall’Agenda di Davos del Word Economic Forum, dalla finanza globale in larga parte radicata in quel mondo occidentale che noi dovremmo difendere in nome della “libertà del mercato” e della lotta contro le “autocrazie”?

Per reagire a queste devastanti manipolazioni dobbiamo difendere fino in fondo la libertà personale di ognuno di noi e ripristinare la sovranità dello Stato nazionale sull’uso delle tecnologie, con il rilancio della ricerca e della sanità pubbliche e con istituzioni scientifiche trasparenti e qualificate. Tutta la cultura, la formazione dei nostri giovani e l’informazione mediatica devono essere liberate dai condizionamenti economici e dagli interessi lobbistici, con un forte intervento della mano pubblica finalizzato a garantire veramente la libertà di scelta di tutti i cittadini.

Rivendichiamo soprattutto la difesa della libertà della persona umana che non può essere condizionata nel suo corpo e nel suo intelletto dagli interessi di questi gruppi finanziari che giungono fino a progettare il transumanesimo, il superamento della condizione umana attraverso la manipolazione scientifica e tecnologica.

Ecco perché è necessario che la Repubblica italiana promulghi una “Carta dei diritti naturali della condizione umana” dove siano previsti il divieto assoluto di imporre trattamenti sanitari non voluti e tutte le forme di difesa necessarie a proteggere l’integrità del corpo e dell’intelletto dei cittadini italiani.

VERITÀ E GIUSTIZIA SULLA PANDEMIA COVID-19

Le multinazionali del farmaco, Big Pharma, sostenute e affiancate da think tank, Università e Istituzioni sanitarie internazionali colluse, apparati di ogni tipo, per lo più appartenenti alla anglosfera, stanno costruendo una vera e propria dittatura tecno-sanitaria.

Questa dittatura è cominciata con le terroristiche e ossessive campagne vaccinali per il Covid a base di un prodotto del tutto “insicuro e inefficace”, all’esatto contrario delle mirabolanti e false affermazione di plotoni di tele-virologi e mass media di regime, con le gravissime conseguenze degli effetti avversi che oggi si registrano, nell’indifferenza più profonda e proprio perciò più allarmante, dei massimi organi dello Stato italiano e delle cosiddette autorità sanitarie istituzionali. E con la partecipazione invece iper-attiva ed entusiasticamente repressiva della Unione Europea. Mentre oggi tale associazione di interessi internazionali la vediamo proiettata a conferire ad una OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) privatizzata il controllo non solo della sanità mondiale, ma anche di tutte le emergenze, quindi non solo sanitaria, ma ambientale, climatica, idrica, atmosferica e così via. Di fatto la creazione del Nuovo Ordine Mondiale per via socio-sanitaria anziché politica.

Sono passati mesi dalla fine ufficiale dell’emergenza sanitaria, dichiarata il 5 maggio 2023 dall’OMS, ma rimangono ancora tutti i dubbi sull’efficacia delle campagne vaccinali, dei lockdown, sulle carenze del nostro sistema sanitario e sulla mancanza di terapie efficaci contro il Covid-19. Per fare luce su tutto questo la maggioranza di centrodestra aveva promesso di varare una Commissione d’inchiesta parlamentare sulla Pandemia che, a più di un anno di distanza dalla formazione del nuovo Governo, ancora non vede la luce, anzi perde competenze e viene rimbalzata da un ramo all’altro del Parlamento.

Intanto il rappresentante italiano presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha espresso il suo voto favorevole alla riforma che trasformerebbe questo organismo in una autorità in grado di imporre agli Stati membri precise direttive sulla gestione delle future emergenze non solo sanitarie. Questo nonostante l’OMS – che già si era comportato in modo equivoco durante la pandemia – sia diventato in pratica una organizzazione privatizzata, in balia dei finanziamenti del più importante profeta (e investitore) sulle campagne vaccinali, Bill Gates. Sarebbe l’anticamera per il green-pass internazionale e di dominio istituzionalizzato di Big Pharma.

Chiediamo al governo di ritirare immediatamente il voto favorevole alla riforma dell’OMS, cosi come hanno fatto Cina, Russia e persino Stati Uniti. Chiediamo al Parlamento di approvare subito l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla pandemia Covid-19 e sosteniamo la nascita di un Osservatorio permanente che vigili sull’operato di questa Commissione per evitare che i soliti interessi insabbino la sua attività o addirittura la utilizzino per confermare tutte le verità ufficiali che gli organi di informazione hanno cercato di propinarci in questi anni. È un impegno che dobbiamo prendere non solo per chi ha pagato un prezzo altissimo alla emergenza Covid-19 ma anche per evitare che in futuro si ripetano situazioni e drammi di questo genere.

Infine sosteniamo una modifica dell’art. 32 della Costituzione: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario” cancellando la frase “se non per disposizione di legge”. In questo modo nessuna legge statale potrà mai imporre a un cittadino italiano trattamenti sanitari o vaccinali contrari alla sua volontà.

DIFENDERE LA VITA E I DIRITTI NATURALI DELLA PERSONA UMANA

Il mondo cattolico si è nel tempo configurato come un “mondo del dissenso” scendendo in piazza per difendere i valori della famiglia, della natalità e della vita da tutti gli attacchi portati avanti dal fronte progressista, di fronte a cui tutta la politica ufficiale, anche quella di destra, non è mai riuscita a costruire una risposta forte ed efficace.

Dalle piazze del Family Day alle Marce per la Vita questo popolo ha fatto sentire la sua voce, una pressione sociale e culturale, senza la quale oggi l’attacco transumanista in Italia sarebbe giunto agli stessi livelli dei paesi del Nord Europa.

Noi dobbiamo difendere la vita umana in tutti i suoi momenti, dalla nascita, cercando di prevenire l’aborto volontario, alla morte, respingendo la tendenza all’eutanasia di Stato. Dobbiamo combattere l’ideologia gender e le “carriere alias” nell’ordinamento scolastico, l’utero in affitto e le adozioni da parte di coppie LGBT+, il politicamente corretto che abolisce padre e madre per imporre il Genitore 1 e il Genitore 2, per difendere i diritti naturali della persona umana da condizionamenti che discendono da dittature di minoranze e dai finanziamenti delle multinazionali biotech che vogliono manipolare l’essere umano.

NO ALLA DITTATURA DELLA TRANSIZIONE GREEN E DEL CIBO ARTIFICIALE

Uno dei temi su cui si esercita maggiormente il condizionamento dell’Unione europea è quello ambientale e climatico, che sta portando alle direttive e ai finanziamenti della Transizione Green. Niente viene trascurato, dalle automobili che devono diventare tutte elettriche entro il 2035, alle abitazioni che entro il 2030 devono cambiare classe energetica pena la loro non commerciabilità, all’imposizione ossessiva delle fonti energetiche alternative, fino alle limitazioni della mobilità delle persone in ristrette ZTL all’interno delle città.

L’Unione Europea produce il 7,3% delle emissioni globali e queste misure, anche se fossero tutte realizzate, produrrebbero un beneficio irrilevante a livello globale e non avrebbero altri effetti se non quelli di distruggere l’economia europea e di esporre i nostri popoli a un rischio orwelliano per le loro libertà. Dobbiamo interpretare la protesta spontanea che nasce in tanti settori dell’opinione pubblica e che non trova ascolto nella politica ufficiale.

Dobbiamo spiegare a tutti che per valutare la sostenibilità di una scelta non si deve considerare solo il prodotto finale, ma l’intero processo che è stato necessario per ottenerlo. Si potrà così spiegare che un pannello solare cinese non è sinonimo di energia pulita perché l’energia per produrlo deriva in gran parte dal carbone; oppure che ogni batteria per auto elettriche ha, dietro di sé, l’estrazione di tonnellate di minerali, il consumo e l’inquinamento d’ingenti masse d’acqua e, in molti casi, gravi forme di sfruttamento del lavoro, anche minorile. Dobbiamo diffondere studi scientifici alternativi che dimostrano che gli enormi sacrifici che l’Unione Europea ci vuole imporre, non hanno alcuna plausibile ragione di essere sostenuti.

La Dichiarazione Mondiale sul Clima, nella quale si afferma che non vi è alcuna emergenza climatica, è stata, a oggi, sottoscritta da più di 1.800 autorevoli studiosi, tra i quali due premi Nobel per la Fisica; ma nessuno sembra volerne tener conto. Occorre far capire che, sul clima, è stata creata un’unica corrente di pensiero che ha trasformato quello che avrebbe dovuto essere un problema scientifico, in una questione ideologica, il cui unico fine è di condurre all’affermazione di un nuovo modello consumistico (quello green), che altro non è che la prosecuzione, sotto mentite spoglie, di quello che ci ha accompagnato fino ad oggi. Dobbiamo spiegare che il cambiamento climatico si fronteggia con l’attenta gestione del territorio per evitare il dissesto idrogeologico, la desertificazione e lo spreco di risorse idriche.

Una forma specifica di questa follia green investe anche l’agricoltura e l’alimentazione e prende forma nell’entusiasmo per il cosiddetto cibo coltivato, in particolare per la carne artificiale che, unitamente agli insetti, dovrebbe sostituire gli allevamenti bovini accusati di provocare grandi emissioni di “gas climalteranti”. A livello globale, gli attuali sistemi agroindustriali producono il 22% in più di quel che occorre e sprecano e perdono circa il 30% di quello che producono e, tutto ciò, a fronte di 2,4 miliardi di persone che vivono in condizioni d’insicurezza alimentare. Questa situazione, oltre a costituire il più grande paradosso e il più rilevante conflitto d’interessi dei nostri tempi, costituisce anche una chiara espressione del livello d’inefficienza degli attuali sistemi produttivi che, tra le altre cose, determinano criticità ambientali, economiche e sociali, i cui costi superano, ormai, il valore della produzione. Inefficienza determinata, in gran parte, dal fatto che il sistema agroindustriale globale è dominato da tre grandi multinazionali che, controllando la quasi totalità del mercato dei semi, impongono cosa e come produrre e, quindi, orientano, in funzione dei loro interessi, lo sviluppo dell’intero sistema. Ciò determina enormi distorsioni i cui costi ricadono inevitabilmente sui soggetti più deboli, ossia sugli agricoltori e sui consumatori di tutto il mondo. L’unico modo per ridurre queste distorsioni e le loro, relative inefficienze, è la restituzione alla politica e, quindi, ai popoli, della sovranità agricola e alimentare che, a sua volta, è l’unica via per rinsaldare il rapporto tra le diverse agricolture e i loro territori e, quindi, per ricondurre e mantenere le attività agricole nei confini della sostenibilità, non solo ambientale, ma anche economica e sociale.

I margini sono amplissimi (basterebbe ridurre le perdite e gli sprechi dal 30% al 15%, come peraltro previsto da Agenda 2030) e, se correttamente esplorati, renderebbero del tutto inutile, anche solo pensare che prodotti industriali, come la carne sintetica, che sono espressione degli interessi delle solite multinazionali, possano essere presentati come l’alternativa “ecologica” ai tradizionali prodotti agricoli. Per questo aderiamo al manifesto contro il cibo artificiale promosso da Coldiretti e all’alleanza trasversale che si è organizzata per combattere questa ennesima deriva imposta dagli interessi delle multinazionali.

DALLA TRANSIZIONE DIGITALE ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE: GIÙ LE MANI DAL NOSTRO CERVELLO

Un altro dogma che domina nell’Unione Europea è la transizione digitale su cui sono concentrati molti degli assi di finanziamento del Next Generation Eu. Anche qui troviamo le tracce del condizionamento finanziario di Big Tech, le grandi multinazionali dell’informatica, che vogliono estendere il loro controllo su tutti i nostri pensieri e i nostri comportamenti, cominciando dall’identità digitale per arrivare al metaverso, fino alla diffusione dell’intelligenza artificiale. In particolare quest’ultima esploderà nei prossimi anni giungendo alla sostituzione del lavoro umano con le macchine guidate dall’intelligenza artificiale e mantenendo molti punti oscuri sul suo sviluppo che diventerà sempre più autonomo dal controllo umano.

Per chiarezza, non limitiamo la nostra posizione a un poco lungimirante contrasto a tutto campo a questo tipo di tecnologia perché ciò condannerebbe il nostro paese a una marginalizzazione e a un pericoloso arretramento in termini di produttività. L’intelligenza artificiale è una tecnologia dirompente, che cambia gli scenari in modi difficili da prevedere. In tal senso non è eccessivo paragonarla all’avvento dell’energia elettrica. Parlare d’intelligenza artificiale significa occuparsi di un cambiamento epocale che sta per plasmare tutti i settori dell’economia. Significa gestire l’avvento di una tecnologia capace di impattare in modi estremamente problematici sul lavoro dei cittadini, sul grado di protezione della loro privacy, sul futuro dei loro figli, sulle prospettive di lungo termine dell’intera società. Di fronte ad un tema di tale complessità e delicatezza, la tutela delle ragioni e degli interessi dei cittadini non può essere delegata ai grandi colossi tecnologici, in prevalenza americani.

A fronte di tutto questo il Governo italiano ha istituito un’inutile Commissione consultiva guidata dall’ottantacinquenne Giuliano Amato. Noi rivendichiamo l’indipendenza nazionale, la sovranità popolare e il controllo della ricerca pubblica sulle ricadute sociali e culturali su queste frontiere avanzate dello sviluppo della scienza e della tecnica, perché non vogliamo che il nostro futuro venga deciso da gruppi di multinazionali guidate dalla finanza globale. Per questo, con un approccio multidisciplinare e operativo, bisogna creare subito uno specifico Istituto di ricerca pubblica sull’intelligenza artificiale, in grado di raccogliere e valorizzare la ricerca di esperti provenienti dal mondo delle scienze umane, delle specifiche tecnologie d’intelligenza artificiale e dell’economia.

SESTO – L’ITALIA PATRIMONIO DELL’UMANITÀ. QUALITÀ CONTRO OMOLOGAZIONE: IL MODELLO ITALIANO

Dalla cultura, dalla ricerca, dalla difesa dell’ambiente e della biodiversità, dello sterminato Patrimonio materiale e immateriale storico e artistico italiano, si dovrà ripartire per la rigenerazione della nostra Patria.
Il nostro compito prioritario è rappresentato dall’elaborazione di un nuovo “racconto” e di un linguaggio all’altezza della nostra Storia.
Per cambiare la percezione che gli italiani hanno di se stessi, bisogna essere in grado di andare oltre il lamento, la protesta e il dissenso come reazione al declino, attraverso la capacità di elaborare modelli culturali inediti e sistemi nuovi e alternativi per la valorizzazione e la gestione del nostro smagliante Patrimonio culturale materiale e immateriale, attraverso una Sapienza comunicativa adeguata.

Un obiettivo più arduo sarà quello di smantellare l’attuale egemonia culturale.

Questo compito non può essere affrontato esclusivamente soltanto attraverso la rigida applicazione dello spoil system, ma soprattutto con l’autorevolezza e la conoscenza necessaria a ribaltare poteri consolidati dominanti nel mondo Accademico e della Cultura. Servirà uno sforzo intelligente e generoso di elaborazione culturale su principi e valori non negoziabili.
Dobbiamo chiamare all’appello tutti quelli che hanno una “certa Idea dell’Italia” dalle sue radici classiche al ‘900, ma guardando sempre all’avvenire attraverso la forza della nostra identità dinamica e modernissima, la consapevolezza delle nostre radici antichissime e nobili, la capacità di declinare le “differenze” in una visione innovativa per andare oltre schemi oramai logori e riconsegnando alle giovani generazioni una prospettiva che superi la semplice e provinciale riproposizione di modelli dominanti nel mondo occidentale.

La chiave di tutto sta nel “ri-guardare” l’Italia nel duplice senso di averne riguardo e tornare a guardarla con occhi nuovi e liberi.
Con occhi INDIPENDENTI.
Iniziare a “riguardare” la Patria significa esaltare finalmente le nostre specificità come eccezionali e non “anomale” rispetto agli stanchi modelli d’oltreoceano e ai tristi parametri di questa Europa di mercanti e mercati.

Tornare a coltivare un “Modello Italiano” moderno e allo stesso tempo antichissimo.

TRASMETTERE CULTURA

Rigenerare il sistema educativo e culturale italiano, base imprescindibile per lo sviluppo della persona umana, per la rinascita della scuola, dell’università e della ricerca attraverso la reale e non declamata valorizzazione del merito, dell’eccellenza e della qualità delle produzioni materiali e immateriali. Occorre radicare tra le giovani generazioni la consapevolezza e l’orgoglio dell’unicità della nostra Patria. Impegnare i giovani, dalla scuola all’Università, nella conoscenza e nella cura del nostro patrimonio artistico e culturale, integrando queste attività nell’ambito dell’attività scolastica. La scuola, assuma come compito prioritario l’esercizio dell’autocoscienza che interroga gli studenti per orientarsi a partire dalla propria identità: chi sono? chi sono i miei padri? le mie radici, da dove vengo. Per sapere dove andare, secondo la propria vocazione, valorizzando i propri talenti, consapevoli dell’importanza di fondare il proprio impegno sull’adempimento del dovere, portando il proprio contributo alla comunità nazionale ove realizzare il proprio destino: ma questo senza sacrificare le conoscenze storico-giuridiche ed economiche, cioè dei fondamentali delle scienze sociali, in modo da essere realmente consapevoli del funzionamento della società della produzione e della tecnologia e dei rapporti politico-sociali che esso implica. Per cambiare questi meccanismi, occorrono cittadini capaci di capire e che sappiano collocarsi all’interno dei meccanismi senza dover subire il condizionamento mediatico-culturale dell’apparato mondialista del capitalismo neo- liberale. La scuola sia la casa dei giovani che non permettono che odi ideologici rompano l’armonia della comunità giovanile alla quale naturalmente appartengono, consapevoli dell’importanza dell’unità pur nelle diverse idee, ammettendo per tutti la propria storia e riconoscendo il valore della pace fondata sulla giustizia.

DIFENDERE IL PAESAGGIO E IL PATRIMONIO STORICO-CULTURALE

È necessaria una legge che razionalizzi, e favorisca, – sia sul piano degli strumenti urbanisti che, più ancora, su quello delle disponibilità finanziarie degli enti territoriali – l’uso edilizio del territorio attraverso vasti programmi urbanistici di riqualificazione e restauro dell’esistente. Occorrerà un attento dosaggio anche per l’installazione di nuovi impianti di energie alternative, per tutelare e difendere i paesaggi naturali e l’ambiente naturalistico.

Allo stesso tempo i meravigliosi Centri Storici e l’enorme stratificazione archeologica, artistica, monumentale e paesaggistica italiana devono essere oggetto di una costante cura e manutenzione, con una forte presenza dell’intervento finanziario pubblico, reclamando un modello di crescita economica e fiscale che consenta di finanziare adeguatamente quest’opera di valorizzazione e attivo recupero. Bisogna ripensare l’importante funzione storica delle Soprintendenze dello Stato, rinnovandole con una nuova riqualificazione del personale, anche attraverso nuove e giovani figure, dotate di competenze multi-disciplinari e non specialistiche e limitate, non chiuse in una sfera massimalista (a effetti elitari) di un’irrealistica cultura, separata da tutte quelle altre che entrano in gioco nel considerare il fattore antropico, la qualità della vita dei cittadini. L’Autonomia dei Parchi e dei Musei va rivista e resa più funzionale ed efficiente, sia attraverso grandi professionalità, che con adeguate dotazioni di personale qualificato, affinché sappiano coniugare in modo intelligente tutela, custodia e valorizzazione dell’Heritage loro affidato con il perseguimento simultaneo della qualità e ragionevolezza dell’insediamento umano.

EQUILIBRARE AREE INTERNE, CITTÀ E AREE METROPOLITANE

Una preziosa caratteristica italiana è rappresentata dalla molteplicità e dalla vitalità dei centri urbani, che rischiano di spopolarsi per i tagli alla spesa statale che paralizzano lo spazio di manovra delle articolazioni istituzionali sul territorio e concentra le attività nel settore dei servizi e sociali nei grandi centri urbani. È una tendenza che deve essere fermata, investendo nelle aree interne, valorizzando il patrimonio abitativo abbandonato dei piccoli centri e delle periferie. Ciò va accoppiato con politiche della mobilità e della viabilità locale non viziate dal pregiudizio “green” e quindi esclusivamente punitivo per le fasce socialmente più deboli. Più in generale, la rinascita dei territori, si deve inserire in una de-polarizzazione dell’attività industriale, dislocando le nuove unità produttive, e le nuove necessarie infrastrutture, fuori dai pochi grandi centri urbani, congestionati e con crescenti esternalità negative, che, per le possibilità occupazionali che offrono, tendono a fagocitare i territori circostanti, segnandone la desertificazione (via via che procede l’invecchiamento della popolazione, abbandonata sempre più in centri minori, tagliati fuori dal forzato sviluppo tecnologico imposto dagli standard europei).

PROMUOVERE L’AGROALIMENTARE DI QUALITÀ E LE TIPICITÀ DEI TERRITORI

L’Italia è divenuta un player importante, sui mercati globali di settore, nel campo dell’alimentazione. Ma i nostri prodotti di qualità – per quanto tutelati dai marchi europei e tuttavia soggetti ad alterne discipline, sempre europee, che, in nome di confuse istanze salutistiche e influenze della grande industria mondializzata, tendono a neutralizzare la riconoscibilità e la stessa commerciabilità dell’agroalimentare italiano – rischiano di perdere valore senza un’adeguata tutela delle nostre produzioni agricole. La qualità e la quantità di produzione agricola italiana garantiscono l’identità dei nostri prodotti agroalimentari. Bisogna recuperare la proprietà dei marchi del made in Italy alimentare, oggi svenduti alle multinazionali del settore, e imporre etichettature e tracciabilità sempre più evidenti per qualificare il prodotto e dare valore alla qualità.

IL MADE IN ITALY, ARTE E IDENTITÀ PROIETTATE VERSO IL FUTURO

Il made in Italy non è solo agroalimentare, è anche produzione industriale e design che riflette, nel corso del tempo, la creatività del genio italiano. L’Italia deve difendere la sua vocazione artigianale, industriale e manifatturiera. Senza la nostra industria saremmo un paese infinitamente più povero. Per questo vano tutelate le filiere e i distretti produttivi del made in Italy e la formazione dei giovani ai mestieri legati a queste produzioni. Nella ricostruzione delle filiere industriali le produzioni del made in Italy tradizionale devono continuare ad avere centralità, non solo per l’export ma anche per il consumo interno.

FRENARE IL TURISMO DI MASSA, CERCARE VIAGGIATORI

La grande realtà del Turismo italiano deve puntare sempre più sulla qualità e su una maggiore attenzione verso il fenomeno della pressione antropica che rappresenta già un grave problema per alcune città d’arte come Venezia. Per questo motivo bisogna individuare nuove dinamiche di governo delle presenze, tutelando, da un’esasperazione del turismo di massa, le Città e le aree di pregio, promuovendo l’intero territorio nazionale nella sua mirabile integrità. Per questo è necessaria rafforzare la Governance a livello nazionale della promozione turistica. In sintesi: non cerchiamo turisti, cerchiamo viaggiatori, rispettosi e desiderosi di entrare in contatto con la pienezza della tradizione storica e culturale che caratterizza l’Italia.

TUTELA DELL’AMBIENTE: RIVOGLIAMO LA FORESTALE

La tutela dell’ambiente è la precondizione per la difesa della bellezza italiana. Inquinamento, degrado, discariche selvagge, abusivismo, incendi dolosi che distruggono sistematicamente aree enormi di biodiversità e patrimonio boschivo, e che rappresentano i

nemici principali da contrastare. Per questo proponiamo la ricostituzione del Corpo forestale dello Stato come autonoma forza di polizia ambientale e agroalimentare. La sua sciagurata soppressione voluta da Matteo Renzi ha fortemente depotenziato la presenza dello Stato nell’ambiente naturale, con aumento esponenziale degli incendi boschivi e dei reati contro l’ambiente. Allo stesso tempo la pulizia delle spiagge, delle campagne e delle montagne, la manutenzione dei boschi, la lotta al dissesto idrogeologico, la raccolta differenziata dei rifiuti, rappresentano attività labour intensive in grado di valorizzare un grande numero di lavoratori socialmente utili. La cura, la manutenzione, il ripristino dei luoghi sono la nuova frontiera della difesa della grande Bellezza italiana.

MODELLO ITALIANO E QUALITÀ

L’identità italiana deve percorrere una via che punti a un aumento della produttività basato sulla qualità e non sulla quantità. Bisogna promuovere la cultura della qualità del prodotto, per ridurre lo spreco di materie prime e la dipendenza dall’estero. Dobbiamo combattere il consumismo “usa e getta”, per passare dalla quantità alla qualità, tradizionale italiana, dei consumi, guadagnando valore aggiunto, valorizzando l’apporto artigianale alle produzioni e creando un nuovo ciclo d’investimenti industriali “diffusi”, sul territorio e sull’incentivazione dell’iniziativa economica dei singoli. Anche in campo alimentare questo modello deve essere rilanciato: combattere il consumo eccessivo di cibo di bassa qualità, che non “sazia” provocando la diffusione di obesità e malattie, valorizzando un’alimentazione di qualità di cui gli Italiani sanno essere maestri.